Domenica in bici (II)

(Per chi l’avesse persa: la prima parte del racconto si trova qui.)
All’incrocio, appena prima della salita verso il parco, c’era un tipo fermo con la bici. Stava pasticciando con i tasti del suo cellulare. Era Stefano, ovviamente.
“Alla buon’ora, ragazze mie!” esclamò appena le vide.
“E’ molto che aspetti?” gli chiese Giada, avvertendo lei per prima la triste retoricità della domanda.
“Beh, insomma. Me l’avevano già chiesto i dinosauri che passavano da qui”, rispose. “Carini anche se un po’ ingombranti, alcuni assolutamente fuori misura. Ci ho fatto quattro chiacchiere mentre vi aspettavo. Veramente è da un po’ che se ne sono andati… curioso….” 
“Ah ah, molto divertente”, disse Roberta, un po’ aspra. 
“Andiamo?” chiese Stefano per chiudere l’argomento. Sapeva bene che tanto non l’avrebbe mai avuta vinta, da solo con due donne.
“Dai forza buttiamoci” disse Giada. “Ho voglia di pedalare!”

A sweet parking spot.
… ho voglia di pedalare!

La giornata era proprio bella, il sole faceva capolino tra gli alberi e lanciava di tanto in tanto fitte lame di luce, che colpivano i ciclisti sul volto, costrinendoli a rallentare o inclinarsi per riuscire ancora a vedere davanti.

Giada si sentiva contenta, contenta di aver portato la sorella, contenta di aver intravisto di nuovo quel sorrisetto bonario sul viso di papà, dopo tanti giorni che gli era sembrato così serio, troppo serio. Un sorriso bambino, dopo il tempo sprecato ad essere (a suo avviso) inutilmente adulto. Perché c’era questo fatto strano: secondo lei, suo papà non era troppo bravo a mostrarsi adulto. Si capiva che se lo imponeva, ogni tanto. Ma ci riusciva in maniera slabbrata, imperfetta. Riusciva molto meglio nell’essere ancora bambino, quando ci si lasciava andare, senza preoccuparsi se fosse il caso oppure no. 
Questo le piaceva del papà. Gli altri adulti erano insopportabilmente adulti, tutti pieni di stucchevole ragionevolezza e finto distacco, tutti sempre lì a bilanciare l’opportunità di questo o di quello. Lui invece aveva questi entusiasmi che lo prendevano, aveva tanti sogni e cose belle da fare, sembrava giocasse. E poi, è vero, anche certi momenti di malinconia, che non si capisce da dove venivano. Allora stava zitto zitto, anche per giorni. Ma era ancora più bello poi quando tornava a sorridere e a scherzare con tutti.
Era contenta e per essere ancora più contenta (perché quando uno è contento non gli basta mai) voleva tornare piccola, farsi abbracciare da papà, farsi coccolare dalla mamma, passare una giornata con loro sana sana, come fosse ancora bambina. Tornare a quando era tutto semplice e l’amore dei genitori bastava ad essere felici più che si può. E non c’erano problemi di ragazzi che ti piacciono o non ti piacciono, non c’erano ragazzi da allontanare o da cercare. 
A volte diventare adulti le sembrava una grande cosa. Altre volte invece le sembrava una cosa davvero poco divertente. Da piccola era diventata quasi una fissazione, lo chiedeva continuamente alla mamma “Ma gli adulti giocano?”. Adulti che non giocano le sembrava una cosa incredibile, pazzesca. A che serve, insomma, faticare tanto per diventare adulti e poi magari nemmeno giochi, nemmeno ti diverti più?
La mamma rispondeva rassicurandola, con pazienza. In vari modi, con diversi accenti, le parlava del mondo adulto. Mamma era la sua inviata speciale in un mondo ancora sconosciuto, una persona fidata da cui avere notizie fresche, di prima mano, di cosa succede lassù. Così aveva iniziato a capire che anche gli adulti giocano, si divertono, ridono, litigano, fanno la pace. Come i bambini. In più si amano, si cercano, oppure si odiano, si detestano: molto più dei bambini. E aveva cominciato a capire quali sono gli adulti con cui si sente meglio: quelli che non si prendono troppo sul serio, quelli che mantengono sempre un riflesso del loro lato bambino, che concedono si scorga sul volto. 
E’ impressionante, ci sono dei vecchi che sono giovanissimi: come ad esempio Vittorio, il nonno di Stefano. Pieno di acciacchi qui e lì, ormai quasi cieco, ma sempre scherzoso. Più una persona è anziana e sembra lo stesso felice, più Giada si rassicurava: la vita é una cosa bella, evidentemente, se ti piace anche da vecchio. Vale la pena percorrerla tutta.
“Giadaaaa… sbrigati, o io e Stefano ti molliamo qui!”. La voce squillante di Roberta la scosse dai pensieri e la riportò  di colpo sul presente. Succedeva spesso, quando si sentiva più contenta la mente se ne accorgeva e si permetteva maggiori libertà, come fare collegamenti più indietro nel tempo, tentare connessioni complesse come cercare un senso a tutto, lanciarsi in operazioni molto più ardite del normale, della normale vita momento per momento.
Pedalando forte per riprendere il distacco, arrivò su uno spiazzo largo. C’era una fontanella da una parte, e Roberta e Stefano fermi a chiacchierare poco lontano. Si vede che era rimasta abbastanza indietro, chissà da quanto la aspettavano.
Quasi sera
…arrivò su uno spiazzo largo.
Avvicinandosi, iniziava a percepire maggiori dettagli. Ecco, Roberta stava guardando il manubrio della bici di Stefano. Iniziava anche a sentire pezzi di dialogo. Lui parlava di qualcosa come velocità, calorie, non capiva bene.
“Vedi, Roberta, ecco la mappa. Ora guarda il grafico: per esempio, tutta questo parte l’abbiamo fatto a velocità superiore ai 35 chilometri all’ora…” disse Stefano indicando qualcosa con un dito. Avvicinandosi vide meglio, il qualcosa era il cellulare di Stefano, fissato sul manubrio della sua bici con un coso nero di plastica.
“Che ci fa il cellulare montato là sopra? Un’altra delle tue diavolerie tecniche?” chiese Giada. “Mica l’avevo visto.”
(2. continua)

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Pubblicato da Marco Castellani

Marco Castellani, astronomo, divulgatore, scrittore

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