Probabilmente è quello che caratterizza di più la nostra epoca informatica. Lo streaming. L’utilizzo di beni e servizi “in comodato d’uso”, diciamo. Che poi è una rivoluzione sottile ma potente, del nostro concetto di uso e consumo di beni. Non paghi per possedere, ma paghi per avere accesso. Ha il suo senso, tutto sommato. Anche se, d’accordo, se tu ascolti solo su Spotify non puoi mica dire ad una persona “interessante” vieni su a vedere la mia collezione di dischi Jazz? (chiaro che ti toccherà inventare qualche altra cosa, su questo la creatività non segna certo il passo). 
Una collezione Jazz ha sempre un suo perché…
Eh sì, io ero abituato proprio a pensare ed agire in questo modo (non dico per la collezione Jazz, che a me nemmeno piaceva il genere, purtroppo…) e lo sono stato per anni: banalmente, se voglio ascoltare un certo disco, devo procurarmelo, acquistarlo, copiarlo, scaricarlo. Insomma devo fare qualcosa, che ordinariamente – legalmente – richiede un esborso di denaro. Deve diventare in qualche modo un oggetto mio, sotto la mia giurisdizione. Che posso conservare per decenni, o perdere subito, o rovinare o prestare o farmi rubare. Così che ha senso dire “la mia collezione di vinili”, una frase che nell’epoca dello streaming invece rischia di non comprendersi più.

Che poi non è solo questo. E’ che cambia anche il modo di utilizzare le cose. Se dispongo di un insieme delimitato, finito, mi approccio a questo in un certo modo specifico. Se invece sono davanti ad una scelta vastissima – che percepisco addirittura come illimitata – mi muovo decisamente in un altra maniera. O meglio, devo ancora imparare come muovermi, per bene. Perché se sono nel bel mezzo ad una cascata immensa di dati, sono anche un po’ disorientato, all’inizio. E per forza! 
Siamo qui, tra cascate di bit, valanghe di dati, per ritrovare un senso, un percorso… 
Ho la fortuna particolare di vivere esattamente a cavallo di una rivoluzione epocale. Cosa che nessuno aveva mai vissuto prima. Una rivoluzione tanto scientifica quanto tecnologica, appunto. Per esempio, un dotto musico del XV secolo alla corte, magari, di Lorenzo de Medici, avrebbe passato la sua intera esistenza (magari, glielo auguriamo, molto molto lunga) senza che il suo rapporto con la fruizione della musica potesse cambiare di uno iota, appena. 
Per me invece è già cambiato tutto. Da piccolino mi incuriosivano i massicci dischi a 78 giri che avevano mamma e papà. Materiale di famiglia di un’epoca che non era ancora conclusa (il nostro glorioso giradischi di casa, aveva ancora la velocità 78 ed anche l’apposita puntina, un poco più spessa). Era proprio buffo il 78 giri, sicuramente molti non l’hanno mai visto, non ne hanno mai tenuto in mano uno. Il disco era molto molto pesante e per niente flessibile. Lo mettevi sul piatto e una facciata durava appena pochi minuti (sulla qualità dell’audio e sulla quantità di rumore vario non mi pronuncio, ma  dovete pensare che c’è stata un’epoca in cui era comunque lo stato dell’arte). 
Poi ho traversato la mia infanzia, potremmo dire, in compagnia sonora di un mangiadischi e un po’ di 45 giri. Ascoltavo sempre quelli, non c’era altra possibilità, e nemmeno me la potevo figurare. Il mio universo musicale (e di fiabe) aveva confini precisi, le novità erano poche e arrivano, necessariamente, solo ogni tanto. 
Poi sono arrivati anche per me i 33 giri, e già era moltissimo. Scricchiolavano dopo un po’ e ti rovinavamo i passaggi più delicati, ma potevi addirittura ascoltare venti minuti di musica buona, senza fare nulla, senza dover girare il disco. Niente male. Ed in contemporanea, più o meno, le musicassette, anche loro con i loro pregi e i loro bravi difetti (vere opere di ingegneria erano necessarie per ovviare agli inevitabili inceppamenti del nastro negli ingranaggi del lettore, a volte bisognava proprio andare di taglio & cucito). 
Ora andando avanti veloce, torno ai nostri tempi, dove mi trovo a disposizione un flusso di musica virtualmente illimitato, per di più fatta a misura di quello che mi piace (il sistema, bravo bravo, impara dai miei stessi ascolti), una cascata dove entra in modo accuratamente miscelato, musica che conosco e nuovi brani, che non avrei mai ascoltato se non fossi collegato a questa specifica sorgente telematica. 
E non è vero, come sostengono alcuni, che Spotify (o analogo servizio, ovviamente) mi abbia ristretto l’area di ascolto: per me, almeno, la ha allargata in modo incredibile. Non posso contare la musica nuova con la quale sono entrato in contatto in questo periodo relativamente breve, di uso assiduo di un abbonamento musicale in streaming. Mi posso avventurare in ogni momento in sentieri sconosciuti o conosciuti solo in parte, posso fare di testa mia e sentire quel disco oppure fidarmi e seguire una catena di algoritmiche concordanze, le quali mi portano da brani arcinoti ad alcune mirabolanti sorprese, autentici tesori finora nascosti: davvero musica per le mie orecchie. 
Posso fare questo e molto altro, su un bacino di musica così vasto che per me – per quello che riuscirò ad esplorare nella vita – è virtualmente infinito. 

Niente male, per un ragazzetto che è partito nell’avventura musicale, con un mangiadischi (uno scatolone rosso e bianco a marca LESA, rigorosamente monoaurale) e una ventina di polverosi 45 giri per foraggiarlo. 
Quale altro periodo storico avrà mai alimentato una così grande avventura?

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