Smart working. Due parole di strettissima attualità, in questo tempo così particolare.
Le ricerche sullo smart working indicano che il lavoro a distanza ha livelli di efficienza simili a quello in presenza, ma ci si interroga meno sugli effetti di lungo periodo di una società sempre più smaterializzata e delocalizzata.
Così scrive Davide Prosperi, Presidente ad interim della Fraternità di Comunione e Liberazione, in un recente articolo apparso sul Corriere della Sera.
La scoperta della possibilità di lavoro agile è senz’altro una bellissima cosa, peraltro avvenuta tardivamente (da noi) e solo sotto l’incalzare dell’emergenza sanitaria. Ma dobbiamo tener presente che la vita è relazione, tutto l’universo è una trama di relazioni, se scendiamo nel regno delle particelle elementari troviamo al fondo di tutto sempre questo, la relazione (e a dirlo non sono certo fisici misticheggianti). Ebbene, elidere la relazione sostituendola con l’azione a distanza, non è un gioco che si può rilanciare indefinitamente. Le conseguenze si pagano. Psicologicamente, prima di tutto.
Si tratta allora, secondo alcuni, di agire in maniera plastica e dinamica, reagendo agli eventi (diffusione del virus, varianti, eccetera) in modo intelligente e flessibile. Cauti e prudenti, certo. Ma anche consapevoli che le chiusure drastiche e i confinamenti prolungati oltremisura risultano sempre più indigesti, dopo mesi e mesi di cultura dell’emergenza. E che i ragazzi, per crescere, hanno bisogno di intessere vere relazioni umane, non di ricadere dietro l’ennesimo schermo luminoso. Anche se su questo venissero proiettati corsi formativi stupendamente ideati, anche se si cercasse (giustamente) di rendere il tutto più interattivo possibile.
In questo senso mi pare si muova anche l’intervista a Matteo Renzi, pubblicata su Avvenire il nove gennaio (il giorno dopo la pubblicazione del pezzo di Prosperi).
Io sostengo al 100% la linea di Draghi sulle riaperture delle scuole. Quando c’è qualche problema la prima cosa che in tanti propongono di chiudere è la scuola. Ma è un errore clamoroso. Basta con questa cultura nichilista per cui i nostri figli possono andare in pizzeria o a sciare, giustamente, ma non a scuola. Io dico di più: teniamo aperte le scuole, contro la povertà educativa, ma anche come hub per mandare team medici a vaccinare dentro le scuole. Quando ero ragazzo, a scuola facevamo la visita medica. Sa quanti ragazzi, magari più poveri, non possono permettersi visite accurate? Investiamo in educazione e in sanità: non consideriamo la scuola come luogo per untori, ma al contrario trasformiamola in un presidio di salute e di libertà.
Mi sembra una intuizione valida, quella di individuare dietro certo esasperato trincerarsi e barricarsi, il segno di una cultura nichilista (e consumista, tra l’altro, perché meno relazioni autentiche coltivi più diventi schiavo del mercato), di una cultura che ha perso il senso della profondità e preziosità della vita e trattiene solo un istinto di conservazione che però non riesce più ad appoggiarsi ad istanze valide, positive, espansive. E poi investire, non ritrarsi. Scommettere sul futuro. Personale, e sociale. Rilanciare, soprattutto adesso.
L’universo è in espansione, scelte diverse vanno contro la storia (e contro la scienza). Non ha futuro una società che si disinfetti compulsivamente da ogni contatto con il reale. Nelle nostre mani rischia di non rimanere più nulla (a parte il virus, a volte, in barba a tutto). La cautela è d’obbligo, ora più che mai. Ma anche smettere di sognare è pericoloso per il sistema immunitario. E guardarsi in faccia (anche se parzialmente coperta) e sorridere – quando si può, rispettando sempre tutte le regole del caso – è pur sempre una gran bella medicina.