Dovrei comprare un iPad mini?

Deve essere così. Mi pare molto ovvio che alla Apple leggano questo piccolo blog. Sì, perché quello che sta per entrare in commercio, insieme con l’iPhone 13 e tante varie cose, è un iPad mini davvero interessante. Che appare un po’ come la risposta operativa a quanto si andava argomentando nel post precedente a questo.

Vado subito al dunque. Sono d’accordo con chi dice che nel recente evento Apple (che definirei uno spot di quasi un’ora e venti oggettivamente realizzato benissimo, tanto che ne vorrei riparlare) la parte più interessante è rappresentata proprio questo iPad mini. E mi sento anche di assecondare chi asserisce che tale arnese risulti totalmente interessante anche per chi (come lo scrivente) graviti da molto tempo prevalentemente nel mondo Android.

Caro Google, una mela non è una pera “strana”. Un tablet non è un telefono “grande”. 

Tra l’altro, nel momento in cui scrivo, il sondaggio promosso dal sito iMore su quale sia stato l’annuncio preferito nel recente evento Apple, appare decisamente a favore di iPad mini. Ma so che non avete tempo da perdere, quindi entriamo nel merito. Vorrei dire perché mi intriga questo nuovo piccolo iPad.

  • Le dimensioni. Come si è già detto, considero un tablet di queste dimensioni estremamente usabile, in un ampio assortimento di situazioni. Non sono un grande fan dei dispositivi con schermo intorno ai dieci pollici, non si tengono facilmente in mano, non ci leggi bene sul divano o sul letto (e nemmeno in bagno). Vanno meglio per lavorare, ma a quel punto passi direttamente al laptop o ti siedi e fai le cose per bene, con un vero computer.
  • La connessione USB-C. Finalmente. Per un utente Android non è una cosa da poco. Vuol dire un cavetto di meno in giro, perché finalmente (qui) Apple adotta quello che è da tempo lo standard, nel resto del mondo. Un solo cavetto. Una grande comodità (e finalmente anche Kindle sta arrivando alla USB-C, ma questa è un’altra storia). Sarebbe veramente ora che Apple abbandonasse Lightning al suo meritato riposo e adottasse USB-C in modo convinto e completo (come anche l’Europa chiede).
  • Ascolto stereo in modalità orizzontale. Era ora. Ho già parlato del posizionamento bizzarro degli altoparlanti su iPad, tutti sullo stesso lato (corto): all’atto pratico, vuol dire che se ti metti a vedere Netflix tutto il suono lo senti uscire da una parte sola, altro che effetto stereo. In questo piccolo iPad invece l’effetto stereo può essere apprezzato non solo in cuffia, perché gli altoparlanti sono posizionati sui lati corti, appunto per fruire di un ascolto stereo in modalità landscape. Sì, va bene, come il Mediapad M5 di cui dicevo, in effetti. Uscito nel 2018, va detto. Ma è una “innovazione” assai gradita qui.
  • Il sistema operativo iPad OS. Non è un sistema perfetto, a voler essere pignoli ci sono alcune cose che non mi entusiasmano. Però è un sistema ottimizzato per tablet, ed è comunque ben fatto (e tra poco vedremo la versione 15 come si comporta). Non ci sono altri sistemi analoghi. Dopo l’abbandono da parte di Microsoft del folle (ma intrigante) progetto di mettere Windows 8 anche sui sassi, e perdurante il plateale clamoroso disinteresse di Google verso il mondo dei tablet, iPadOS è in confortante controtendenza: bisogna ammettere che sono rimasti solo quelli di Apple a ritenere che un tablet non sia appena un grosso telefono. No, il tablet è un tablet, appena. E va pensato in modo specifico.

Complessivamente, un grande salto in avanti anche, diciamo, rispetto a certe ostinazioni che francamente ormai risultano poco comprensibili: anche la versione più recente di iPad, mantiene la connessione proprietaria Lightning – anche bella vecchiotta se vogliamo, visto che sta per raggiungere i dieci anni di età – e presenta stolidamente i due altoparlanti sul medesimo lato (corto) dell’apparecchio (a questo punto, perché ostinarsi realizzare un’uscita stereo sugli altoparlanti, non si capisce).

Ecco, direi che le ragioni per acquisire un iPad classico si concentrano necessariamente sul suo sistema operativo iPadOS, ovvero si acquista essenzialmente un ingresso nell’universo Apple (un po’ come per iPhone SE). Qui c’è poco da fare. Oltretutto sul lato hardware un iPad classico non è esattamente al top. Ha comunque senso, soprattutto se associato ad una tastiera e/o ad una Apple Pencil. Ti consente di fare parecchie cose (no, per Netflix, ti conviene infilare gli auricolari).

Tuttavia, le ragioni per acquistare un iPad mini, questo iPad mini, mi sembrano ben più consistenti, anche a fronte di una spesa richiesta significativamente maggiore. Per chi è a caccia di un buon tablet dalle dimensioni contenute, per come già si argomentava, non c’è una grande scelta. Huawei (da quanto si desume dallo store) sembra aver abbandonato il formato “otto e qualcosa”. Samsung lo occupa – al momento – solo con modelli decisamente economici, come Galaxy Tab A7 Lite oppure Galaxy Tab A, interessanti solo se uno deve spendere poco, certo non comparabili con iPad mini (o con il mio buon vecchio Mediapad M5).

Dunque a mio avviso iPad mini costituisce una opzione molto interessante, per chi cerca un tablet moderno di dimensioni contenute. Almeno fino a quando non verrà fuori un’alternativa credibile (nell’hardware e nel software di gestione) dal mondo Android. Il che purtroppo – almeno per la parte software – temo che non avverrà molto presto.

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Miglior tablet otto pollici 2021 (tipo)

Complice il tempo libero delle vacanze, ho iniziato una ricerca per capire, in prospettiva, se fosse il caso di sostituire il mio tablet Huawei MediaPad M5 (8.4 pollici) che potrebbe essere considerato non nuovissimo, visto che è stato acquistato a novembre del 2018 (per il mio compleanno). Dopotutto, due anni e mezzo abbondanti non sono pochi per un arnese elettronico, in tempi come questi.

Per completezza, devo dire che qualche tempo fa mi sono fatto tentare da un’offerta molto allettante, e mi sono concesso l’acquisto di un iPad (settima generazione) come potenziale sostituto al MediaPad M5, e anche per avere un punto di accesso al modo di vedere Apple, se mi capite (riguardo al quale risento di una forza di attrazione oscillante in modo periodico).

Tuttavia, senza nulla togliere all’iPad (che mi è ben servito per dei lavori specifici, e che attualmente usa perlopiù mia figlia con molto profitto), proprio in questa occasione ho realizzato quanto per me sia comodo il formato otto pollici (tipo). In particolare, come questo realizzi un compromesso veramente splendido tra uno schermo ampio e leggibile e una discreta portabilità.

Siamo d’accordo che un (tipo) otto pollici è la cosa migliore?

Un tablet (tipo) otto pollici te lo porti in giro come se nulla fosse. Se stai leggendo e non vuoi interrompere puoi portartelo perfino al bagno, senza apparire troppo eccentrico (personalmente, non riesco a trasportare in modo dignitoso/casual un dieci pollici nel bagno, non so voi). Per leggere libri – in mancanza del fido Kindle che certo realizza l’esperienza ottimale di lettura, o anche per gli ePub che il Kindle sdegnosamente rigetta – è diecimila volte meglio (fidatevi) di un dieci pollici. Play Book si esprime alla grande sul mio MediaPad. Hai voglia a portarti in giro un dieci pollici per leggere un libro: niente, non è pratico.

Ugualmente quando si tratta di riviste digitali. Lo schermo del MediaPad è quello giusto, non c’è niente da fare. Più piccolo è un fastidio leggere, più grande è un fastidio tenere il lettore in mano. Certo devo usare gli occhiali, come con una rivista cartacea (non invecchiano solo i tablet, bisogna serenamente ammetterlo). Ma qui la cosa è mitigata perché posso allargare un po’ la pagina. Questo per dire, che Readly è di casa sul mio MediaPad. Certo, ho provato Readly anche su iPad, ci mancherebbe. Molto bello, forse superiore come animazioni e transizioni (iPadOS contro Android Pie, il primo vince facile) che si godono sfogliando le varie riviste. Ma niente, scomodo leggere su un dieci pollici, alla fine. Almeno questa è la mia impressione, adesso (le mie impressioni, lo so bene, cambiano con il tempo).

Anche questo, il formato. Ho sempre avuto problemi a digerire il rapporto di dimensioni di MediaPad: fosse stato per me, l’avrei fatto più largo e meno alto. Così, esteticamente: un poco più chiatto. Invece con quel rapporto 16:10 sembra un grosso telefono, non un tablet. Ma quando si parla di vedere Netflix, beh appare semplicemente perfetto. Ah, ovviamente anche YouTube. Dunque, si capisce perché l’han fatto così.

E qui voglio spezzare una lancia sulla genialità dei tecnici Huawei di aver messo i due altoparlanti sui lati corti opposti, in modo che si posizionino alla perfezione quando guardi un video in modalità orizzontale (che è la cosa più ragionevole), restituendoti un suono stereo più che dignitoso. Ah, se vi viene da dire beh ma ce ci vuole forse non avete realizzato come sono dislocati gli altoparlanti di iPad. Ve lo lascio scoprire, come l’ho (amaramente) scoperto io. Se vi trovate un senso, perfavore scrivetelo nei commenti. Devo ancora capirlo.

Nel complesso, sui vantaggi e svantaggi degli otto pollici si possono spendere molte parole, ma alla fine è questione di gusti personali e di come viene usato lo strumento. A me piace che il MediaPad si possa portare in giro molto facilmente, per dire. Già l’iPad ha un ingombro diverso, e si vede.

Quindi da tutto questo sproloquio, avrete capito che un otto pollici (o se vogliamo, otto e un po’) non mi dispiace. Anzi. E quindi, dopo aver cercato su Ecosia best tablet 2021 e cose simili, e aver trovato sorprendentemente pochissimi modelli (tipo) otto pollici, ho raffinato la ricerca e ho tentato aggiungendo, appunto, la specifica degli otto pollici. Così, tanto per andare dritto al punto. Ci sono diversi siti che fanno le loro liste, tra cui WordofTablet (apprezzabilmente nel circuito di ricompense Brave), o anche Lifewire, ed inoltre mytabletguide oppure (in italiano) 10best ed anche AltroConsumo. E via di questo passo.

Qui casca l’asino (diciamo). Se verifico le specifiche di moltissimi di questi, anche usciti più di recente del mio, spesso mi scontro con modelli inferiori, in un senso o nell’altro. Le chiacchiere stanno a zero: difficile trovare modelli con oltre 4 GB di RAM e con risoluzione superiore a 2650 x 1600, appunto (avrete indovinato) le specifiche del MediaPad. Esistono ovviamente una miriade di tablet migliori – e ci mancherebbe altro che mancassero – ma praticamente sempre con il formato dieci pollici o più.

Certo un valido competitor è iPad mini (in verità un poco più piccolo, con i suoi 7.9 pollici di diagonale). Se guardo però la risoluzione, emerge che iPad vanta una griglia di 2048×1536 pixel, dunque inferiore al mio MediaPad. Certo la risoluzione non è tutta la faccendo (poi è vero, la creatura di Apple ha uno schermo più piccolo), ma passando da MediaPad ad iPad mini, sentirei di perdere qualcosa. In questi casi, conta soprattutto se uno vuole (ri)entrare nell’universo Apple, anche magari ad un prezzo un po’ elevato. C’è da capire se vale la pena, e questo è un discorso essenzialmente individuale.

Al di là del fatto che ho compreso – a distanza di anni, d’accordo – che con il MediaPad ho fatto un buon acquisto, è evidente che l’industria non punta molto sugli otto pollici. Non ci crede, non spera di poterci guadagnare abbastanza.

Il che per me rimane un grande mistero. Lo aggiungo allora ai misteri riguardanti lo sviluppo tecnologico, che ormai ce ne sono tanti. Perché la gente si è accanita per anni ad usare Internet Explorer quando era ormai un rottame capolavoro di bachi e maestro d’inscurezza e non adesione agli standard W3C, mentre emergevano già browser più sicuri ed addirittura con la navigazione a schede come Firefox, ad esempio. Oppure, perché VHS ha vinto contro Betamax, tecnicamente superiore (dice chi ci capisce).

Ed intanto mi tengo il mio MediaPad. Che certo, è rimasto ad Android Pie ma, con qualche ritocco e l’interfaccia così carina di Microsoft Launcher, al posto di quella di Huawei (ormai ferma, come è fermo il suo Android), tanto male non è.

E mi interrogo, di quando in quando, sui misteri dell’informatica.

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Apple come IBM?

Forse sì. Può essere così. Aria di rivoluzione, cantava Franco Battiato molti anni fa. E le rivoluzioni vanno e vengono. Che Apple sia stata un fermento di vera rivoluzione, negli anni passati, è indiscutibile. Che lo sia ancora adesso, forse, non è così certo.

E’ possibile che dopo la dipartita del folle tiranno visionario Steve Jobs, il fermento di rivoluzione si sia sempre più affievolito? Fino magari a spegnersi? Che abbiano vinto definitivamente le logiche di mercato? Che insomma Apple sia diventata una azienda “tranquilla”, volta al mantenimento dello status quo, senza desiderio di rischiare, un po’ come una IBM ben assestata, insomma?

Apple, una rivoluzione ormai al termine?
Un’azienda certo dedita alla produzione di oggetti di alto livello (ad un costo studiatamente esclusivo), ma senza quella spinta innovativa che l’ha resa celebre? E con un orientamento decisamente volto a ritagliare dei margini ben precisi di intervento sulle proprie macchine, per giunta?

A volte si ha come l’impressione che la società funzioni come la Apple, che non voglia lasciarci prendere un cacciavite e guardare all’interno per capire da soli che cosa non va. (Matt Haig, Vita su un pianeta nervoso)

Ci pensano loro se qualcosa non va. Sono bravissimi, ma devi lasciarli fare. Tu, non impicciarti. Se non funziona qualcosa, loro te la cambiano. Alla fine questa cosa è frustrante.

Non so. Quando la rivoluzione si piega alla sua conservazione, contraddicendosi in essenza, di solito iniziano i guai. Aver messo a punto finissime strategie per pompare denaro nelle proprie casse è comprensibile, un po’ meno non usare veramente di questa presunta diversità per innescare un moto di cambiamento, oltre la pura logica di mercato.

Tutto è troppo equilibrato in Apple, insomma. Siate affamati siate folli diceva Steve nel suo più celebre discorso (quello sì, da rileggere). Qui più che fame c’è una moderata soddisfazione, come un po’ un appetito spento. C’è un recinto dorato, fatto (certo) di tante belle cose software e hardware, poco permeabile verso l’esterno, che viene in effetti la tentazione di chiudervisi dentro. 

Ma sbaglieremmo.

Perché c’è un mondo da cambiare, in effetti. Non basterà un brand a darci la sensazione consistente che lo stiamo facendo, non basterà neanche credere di pensare differente. Ma questa, naturalmente, è un’altra questione.

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Rispetto per gli utenti

Gli strumenti di comunicazione come WhatsApp o Telegram ormai sono considerati – a torto o a ragione – come indispensabili per una accettabile vita di relazione sul nostro pianeta. Benché WhatsApp sia ancora il più diffuso, Telegram spesso spicca per proporre soluzioni innovative, ed è pertanto a quest’ultimo che vanno le mie (e non solo mie) preferenze.

La storia che vi racconto oggi riguarda proprio Telegram, e la celebre azienda della mela morsicata, la Apple. Si tratta di un simpatico gioco delle parti, che ai meno affezionati può giustamente essere sfuggito, complice caldo e mascherine varie. Orbene, il giorno prima di Ferragosto, viene pubblicato un post sul blog di Telegram dove si annuncia il compimento del settimo anno di vita dell’applicazione, celebrato con l’introduzione della tanto attesa possibilità di effettuare video chiamate (senz’altro, la cosa più grossa che mancava rispetto al suo diretto concorrente).

L’avviso di aggiornamento disponibile, su Google Play

Nello stesso post, però (ecco la cosa interessante), si specifica che l’introduzione di questa feature per il momento è riservata agli utenti del sistema operativo Android, e non ai possessori di iPhone o iPad. Questo perché Apple non ha ancora approvato l’aggiornamento (nonostante – si fa notare in maniera piccata – sia stato sottoposto per la verifica ad Apple diversi giorni prima che a Google), che dunque non è potuto arrivare sullo store in tempo per la coincidenza con l’anniversario.

Ora, se andate a leggere il post, mi prenderete certamente per matto, perché nulla di tutto questo appare. Nel post datato 14 agosto, infatti, si parla soltanto dell’introduzione delle video chiamate per Android ed iOS, senza distinzione. Ci sono, e ci sono per tutti.

Che è accaduto? E’ accaduto che – nonostante quel post porti la data del 14 agosto, è stato modificato il giorno successivo. E’ facile capire perché, a mio avviso: Apple si è sentita in una situazione imbarazzante e si è sbrigata ad approvare l’aggiornamento.

E si può capire perché, visto che l’annuncio originale, reperibile (in inglese) sulla WayBack machine, appare piuttosto duro con la azienda di Cupertino (purtroppo il post corrispondente in italiano non è stato indicizzato e non si recupera, tuttavia presentendo qualcosa avevo fatto uno screenshot con il cellulare, tanto per riferimento futuro).


Parte del post sul blog di Telegram (prima stesura)

Questo appariva sul blog italiano, e d’altra parte è facile verificare che sia la fedele traduzione del post originale inglese, come reperibile ora sulla Wayback Machine (gloriosissima invenzione, detto tra noi).

Why not on iOS? We would like to apologize to all our iOS users for launching this feature on Android only. Apple has failed to review this update in time, even though we submitted it to the App Store several days before sending it to Google Play. If you’re on iOS and would like to try Telegram Video Calls, you’ll have to wait until Apple lets you – or switch to a platform that has more respect for its users and developers, like Android. 😉

Paragrafo, come si può verificare, totalmente assente nella versione di Ferragosto che al momento è anche quella definitiva. Nessun accenno a ritardi di Apple, alla mancanza di rispetto per utenti e sviluppatori: niente di niente.

Dunque alla fine, tutto rientrato. Probabilmente la mossa di Telegram è stata compiuta proprio allo scopo di dare una scossa ad Apple perché approvasse la nuova release (e magari Apple, avendo dalla sua applicazioni concorrenti come FaceTime, forse non aveva troppa fretta in questo caso…). Così che, una volta raggiunto lo scopo, amici come prima e via le polemiche, anche dal blog.

Se però la voglio ripercorrere, questa faccenduola, portandola alla luce per molti che non si sono accorti del giochetto, non è per pruderie giustizialistiche. E’ per quanto possiamo imparare, da questo. E’ per smascherare un nostro modo di intendere Internet, che è derivato probabilmente dai tempi diversi della nostra evoluzione biologica, rispetto a quelli assai celeri della comunicazione di massa. Dalla nostra intrinseca resistenza al cambiamento, specie se è così veloce.

Fateci caso. Siamo abituati a considerare quello che è scritto su un sito Internet come una cosa statica, permanente. Certo, non scolpito nella roccia, ma quasi. Diciamo infatti c’è scritto su quel sito! e spesso non ci rendiamo conto della intrinseca plasticità di questo supporto informatico. Qui, volendo essere più eleganti, potremmo anche parlare della intrinseca impermanenza delle informazioni su Internet, ma è lo stesso. Tutto può sparire in ogni momento, o peggio, tutto può cambiare. Spesso, senza che le persone possano averne consapevolezza.

Tornando al caso in esame: cosa comprenderebbe una persona che oggi si collegasse al blog di Telegram e leggesse il post datato 14 agosto? Che in quella data Telegram, in sostanza, ha celebrato il suo settimo anno di attività, e per l’occasione ha reso disponibile per tutti la possibilità di effettuare videochiamate, indipendentemente dal sistema operativo.

Il che è interessante e rassicurante. Però purtroppo è falso. In effetti la data del post, senza indicazione di una revisione successiva, porta ad un fraintendimento. Porta a pensare che il giorno prima di Ferragosto l’aggiornamento di Telegram fosse disponibile sia per gli utenti Android sia per quelli iOS. Non a caso, è questo il messaggio che deve rimanere, a prescindere dal fatto che non sia andata esattamente così.

Insomma ha un po’ il sapore di una delicata insabbiatura, la forma del post come è ora. Polemiche rientrate, d’accordo. Però mi chiedo: improvvisamente non è più vera l’esortazione di passare ad Android, che avrebbe più rispetto verso utenti e sviluppatori? Come mai questo veloce cambiamento d’opinione? O non è mai stato vero? O era strumentale, allo scopo di sollecitare una mossa della controparte?

Certo questo ci insegna qualcosa, al di là dell’interesse relativo delle scaramucce tra Apple e Telegram. Ci insegna a non fidarci mai troppo, di quanto leggiamo in rete. A non fidarci delle date, dei collegamenti temporali, del fatto “è scritto così”. Insomma, non c’è ipse dixit che tenga su Internet, salvo in rarissime e ben certificate situazioni. Tutto – o quasi – è sempre da verificare.

Siamo in una età liquida, come avvertiva Bauman. E la cosa più liquida di tutte, con ogni probabilità, è una informazione “scritta” su Internet. E se posso permettermi, il rispetto per gli utenti, forse quello, dovrebbe davvero essere meno evanescente, meno “strillato” ma più praticato.

Semplice a dirsi. Ma per questo, ci vuole una civiltà nuova, meno succube del modello neoliberista, che usi la tecnologia in modo diverso e più complesso e creativo, finalmente più libero dalle dinamiche del profitto. Serve Internet come era all’inizio, potremmo dire. Anzi no, serve un mondo nuovo, e persone che non smettano di crederci, e di lavorare allegramente per questo: perché anche la rete sia un luogo di ricerca di senso,che si possa cercare insieme, approfittando delle fantastiche potenzialità del mezzo tecnico.

E che si possa fare, anche scambiandosi messaggi su Telegram. Oppure (da adesso), perfino contattandosi in videochiamata.

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Dovrei comprare un iPhone SE?

Stavo leggendo una interessante recensione del nuovo iPhone SE sull’ultimo numero di MacWorld. Ora, da una parte mi pare molto positivo che vi sia un iPhone abbordabile ad un prezzo meno che stellare, certamente lo è.
Leggo anche, sempre sulla stessa sapida recensione (a proposito, sul numero di giugno, che è appena arrivato in Readly), grandi cose del suo processore A13 di Apple. Bene, ottimo. E che, essendo un “nuovo” iPhone, in ogni caso, beneficerà per alcuni anni di tutti gli aggiornamenti di iOS, laddove (e questo è vero) per Android sulla stessa fascia di prezzo si “sganciano” relativamente presto dalla versione più recente del sistema operativo, ricevendo al più i doverosi aggiornamenti di sicurezza.
Quanto spendo, per metterci le mani sopra?
Però ci sono ancora diverse cose che non riesco ad elaborare, che secondo me inficiano un po’ l’appetibilità di questo iPhone “economico” (le virgolette sono d’obbligo, essendo il prezzo di partenza fissato sul sito di Apple a 499 Euro, con la dizione probabilmente opinabile, a meno di quello che pensi).
Cose che, non dico puntino a veri e propri difetti, ma sono istanze che alla mia valutazione appaiono un pochino, diciamo così, problematiche. Peraltro è ampiamente questione di gusti, di percezione soggettiva, perché si trovano agevolmente opinioni un po’ diverse, sui vari siti.
Uno, il display. Questo brillante display retina da 4.7‘’ proprio. Ma scusate, non è un po’ piccolo? Intendo, per gli standard attuali. Io posseggo un Samsung Galaxy A8 (del 2018) e ha un display di 5.6‘’ e ancora a volte mi pare piccolino. Non so se vorrei tornare ad un 4.7‘’, anche se con un brillante processore dietro, e il marchio della mela a garanzia. Non so, magari invece c’è chi vuole.

L’altra è la risoluzione. Anche qui confronto con quello che ho, tanto per rimanere sul concreto. L’iPhone SE “vanta” una risoluzione di 1334 x 750 pixel, il mio (che non è in alcun modo un Android di fascia alta) se la cava egregiamente con 2220 x 1080 pixel. Abbastanza di più, per un telefono che costa abbastanza di meno (e non è più certo un “nuovo modello”). Certo con lo schermo piccolo la risoluzione minore si nota meno, siamo d’accordo. Ma qualche dubbio mi rimane.
Il mio dubbio è insomma quello di sempre. Quando posso essere disposto a pagare per entrare (o rientrare) nel modo Apple di vedere le cose? Pagare 500 Euro per un iPhone piccolino, con risoluzione (indubbiamente) limitata, ha senso solo come acquisizione di un terminale che “dialoga” con il resto del mondo Apple. Ovvero, se ho un iMac ad esempio, o un iPad, la scelta indubbiamente porta alcuni vantaggi di maggiore compatibilità. Vantaggi a cui ognuno può dare il suo peso.
Con meno di 200 Euro (meno della metà del prezzo) posso prendere un Galaxy A40, anche lui 64 GB di memoria (ma estendibile), display 5.9‘’, risoluzione 2340 x 1080. Che quando lo accendi, ti si aggiorna (provato) ad Android 10.
Ovviamente sono in ambiente Android, in questo caso. Vuol dire che alcune app non le trovo, anche se la maggior parte esiste nei due ambienti, oramai.
Naturalmente ci sarebbero da fare comparazioni ben più articolate di quella che ho abbozzato io, molto limitata. Ma del resto, qui si appuntano solo alcune considerazioni, opinabilissime per carità. Alcuni spunti, diciamo.
Ma questa domanda, guardando l’iPhone SE, mi rimane addosso, per il momento. Quando sono disposto a pagare il biglietto di ammissione al mondo iOS? E collegata a questa, ovviamente: questo prezzo di appartenenza è in qualche modo giustificato, da un punto di vista meno emotivo?
Lo scopriremo solo vivendolo, diceva il poeta (cantore). Qui io direi, lo scoprirò solo indagando in me stesso, scrutando i miei desideri, cercando di comprendere, con pazienza, quanto sono “indotti” dal mercato, quanto sono compensazioni di altri desideri di ben altra possibile compiutezza, quanto sono autentiche scelte ben ponderate.
Tutte cose che alla fine, hanno ben poco a che fare con un telefonino…

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Microsoft ed Android, prove tecniche di convergenza

In questi tempi di progressioni furibonde e di convergenza sempre più spinta tra fisso e mobile, c’è una cosa che mi pare particolarmente degna di nota. Una cosa da seguire con attenzione, in questo  nostro piccolo laboratorio. Del resto, ogni ipotesi e schema di convergenza è interessante. E’ un allaccio di universi distinti, una strada di amicizia tra protocolli diversi. Un cammino che non è scontato a priori, ma è sempre una avventura.

Sappiamo bene della convergenza che è in atto da diversi anni, nell’interno del mondo Apple: chi ha un telefonino e un computer con il celebre marchio della mela morsicata, si trova piano piano a disporre di un ambiente integrato e sempre più omogeneo, con possibilità estesa di dialogo tra i vari apparecchi, con possibilità di riprendere il lavoro spostandosi da uno all’altro apparecchio, sincronizzazioni automatiche, e via di questo passo. Indubbiamente molto comodo.

Prove tecniche di convergenza (vabbè, con un po’ di cammino…) 

L’altro lato della faccenda, è che se ti capita di mettere un piede fuori da questo ecosistema, iniziano le difficoltà, cominciano i guai.

Se poniamo (non sia mai) ti risolvi a ritornare su Android, per il tuo smartphone, ma ti mantieni più o meno aderente ai dettami Apple in quando computer e/o portatile, devi certamente venire a patti con una prevedibile difficoltà di interfaccia, tra i due mondi. Per esempio, se colleghi il tuo Android al tuo iMac, non ti aspettare che avvengano cose particolarmente audaci.

Infatti, non accade nulla.

Certo, puoi montare Android File Transfer, così hai accesso ai file del tuo telefono, da computer. Ma in modo parecchio spartano, peraltro.

Ovviamente, se invece colleghi l’iPhone all’iMac, ti si apre un mondo. Sempre secondo quanto è stato già stabilito da altri, però. Esempio, il trasferimento della musica lo fai solo attraverso iTunes, altrimenti te lo scordi proprio. Il filesystem dell’iPhone è peggio della materia oscura, del resto: non lo vedi proprio, per quanto lo cerchi. Al di là di questo, che può piacere o no: indubbiamente l’ambiente ti viene incontro per facilitarti in quel che devi fare.

In questo contesto, è degno di nota lo sforzo di Microsoft la quale – dopo aver abbandonato il tentativo di sfondare con i suoi Windows Phone (chi ce l’ha ancora?) – si sta applicando seriamente per realizzare una convergenza virtuosa tra il sistema Windows e i telefoni Android. Le ultime notizie vanno sempre più in quella direzione, ed è francamente incoraggiante, per chi (come me) ha fatto da tempo la scelta di rientrare in Android e ora si trova anche felice possessore di un sistema Windows, il Surface 4.

L’obiettivo di una reale convergenza tra sistemi in linea di principio eterogenei – perché Google e Microsoft sono ovviamente due entità diverse – è reso più facile dalla plasticità intrinseca del sistema Android, in contrasto con il capillare controllo che invece Apple detiene sul suo sistema mobile (anche qui, pro e contro, non ci dilunghiamo).

Concretamente? Su Android posso cambiare launcher, se mi stanco di quello “della casa”. Posso scegliere tra varie possibilità, e cambiare secondo i miei gusti, o le mie risorse hardware. Questo lo dico ogni volta che un aficionado Apple (niente di male, lo sono stato anche io) inizia a magnificare la brillanza e l’omogeneità di iOS (la risposta ovvia che mi viene data, è “ma perché dovrei voler cambiare?”).

Niente, a me piace cambiare. Sopratutto mi piace la libertà di poterlo fare.

Tornando a noi, la mossa intelligente di Microsoft – che prende fiato proprio dalla architettura più aperta di Android – è quella di aver ideato e distribuito Arrow, un suo launcher, ovviamente progettato per rendere possibile questa convergenza. E’ da un po’ che lo uso sul mio glorioso Galaxy Note 3 e devo dire che, convergenze a parte, è realizzato molto bene e in modo intelligente. E’ facile configurarlo ed è un piacere usarlo.

E poi la convergenza comunque aumenta, aumenta ad ogni aggiornamento (e gli aggiornamenti sono parecchio frequenti), come si vede. Qui sotto, vedete come mi si presentavano le novità dell’aggiornamento più recente.

Così, mi piace e mi intriga questa ricerca di un ambiente comune per due entità in principio molto diverse (anzi, competitor), che trovano in questa convergenza, evidentemente, un mutuo vantaggio. Mi piace la scelta di Microsoft che, una volta accolta la sostanziale sconfitta del progetto Windows Phone, abbia imboccato una strada virtuosa e feconda: come dire, se non puoi batterli, allora fatteli amici. Se non puoi sconfiggerli, allora lavoraci insieme. 

E’ sostanzialmente  – al di là di ogni retorica – un approccio aperto, pensato per interfacciarsi con chi è diverso, massimizzando le possibilità di contatto, di scambio. Lavorando a smussare le differenze, o meglio, a fare sì che non siano ostative di un vero rapporto di scambio, di una reale interazione.

Al di là dei motivi squsitamente commerciali (le ditte sono ditte, non enti di beneficienza) che potremmo ci sono e pure potremmo analizzare, mi piace approfondire, capire questa attitudine.

Per  far questo, infatti, devo avere un atteggiamento aperto verso l’altro, devo assorbirne i caratteri, il modo di essere, e sintonizzarmi di conseguenza. Devo prima guardare, capire, assorbire l’altro. Uscendo fuori dai miei schemi. Ci vuole disponibilità, concretezza, anche molta umiltà.

Lungi dal demonizzare il mio avversario, del dire – o pensare – me ne frego (come purtroppo capita), mi aspetta un paziente lavoro di ricerca di punto di contatto. Mi aspetta un lavoro di inedita relazionalità, nell’interesse comune. Un lavoro, probabilmente, che trova un suo specifico accordo con le linee di forza dell’universo (azzardo, lo so, ma è bello pensare così), poiché alla fine l’universo non è altro che un sistema relazionale, come ci dice il fisico Antonio Bianconi.

Tutte cose su cui è interessante riflettere. Tutte cose utili, a ben pensarci, anche fuori dall’ambito di computer e telefonini. Anzi, se possibile, molto più utili e fecondi esattamente fuori da tale ambito. 

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Pensa diverso. Anzi, uguale

Non nego che se qualcuno mi regalasse l’iPhone 6 (prendete nota) gli sarei grato per un congruo numero di mesi. Non nego che l’oggetto abbia una certa attrattiva nel mio spazio mentale. Assolutamente. A parte il fatto che i grafici Apple sono bravissimi a presentare i prodotti in modo da sollecitare le tue ghiandole salivari, con queste paginette eleganti (poi copiate da Google e da Amazon, basta che vi fate un giro sulle presentazioni del Kindle o del Nexus 7 per notarlo con chiarezza rocciosa e definitiva). 

Non lo posso negare. Non c’è confronto che tenga, ancora. L’iPhone è elegante. E soprattutto, fa girare il software che voglio io (DayOne, sappilo: è quasi tutta colpa tua). 

Questo per ribadire la mia vicinanza emotiva alla faccenda iPhone.

Però c’è qualcosa che non mi torna, c’è qualcosa che mi rimane un po’ qui.  Insomma, non riesce ad essere digerita bene.

Cerco di capire. Di razionalizzare.

Ecco.

Tutta questa cosa di pensare differente, insomma ora come la mettiamo?

Prima l’iPad mini, quando Steve aveva sostenuto che uno schermo minore di 10’ non aveva senso. Vabbé. E’ un bell’oggetto, d’accordo. Sia pure.

Però una cosa rimaneva. Una certezza, per noi utenti Apple. Il formato del telefono. Non ha senso lo schermo sopra i quattro pollici. Non deve avere senso. Tutta la storia che uno schermo piccolo è più pratico, entra in tasca, lo tieni in mano e con il pollice arrivi dappertutto. Per le altre cose c’è l’iPad, non bisogna confonderci. Il telefono deve essere compatto.

Ok, va bene, ci credo. 

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E’ sempre il solito problema: le dimensioni contano? E quanto?

Così passi mesi a guardare questi ragazzotti con i padelloni Samsung o gli Xperia della Sony, e trattieni qualche episodico moto di invida, cercando di ragionare, pensando loro in fondo non hanno ancora capito. Certo ogni tanto ti sorprendi a pensare a come sarebbe guardare delle foto su uno schermo più grande, ma poi ti riprendi e capisci. “E’ un inganno, ragiona. Lo schermo dell’iPhone è quello giusto. E’ quello che ti serve.”

Perlomeno hai un punto di certezza, un conforto oggettivo. Gli iPhone sono tutti così. Certo dal cinque in poi si è un poì allungato lo schermo, ma è poca cosa. Una concessione minima, la larghezza è quella. La nostra filosofia è consistente, non ha motivo di cedimento. I padelloni Samsung  (oh, così brillanti… e guarda come si vede bene…) sono in fondo una manifestazione di immaturità, di superficialità tecnologica. E’ un problema, dopotutto, di scarsa consapevolezza.

Sì sembrano belli anche a me, quando non ragiono… 

Prima o poi, capiranno.

Inoltre, io ho le mie belle app pensate appositamente per questo schermo da 4 pollici. Gli utenti Android sono afflitti dal famoso problema della frammentazione dei dispositivi (ogni utente Apple deve impararlo bene), per cui alla fine una cosa che va bene a tutti (gli schermi) non è realmente ottimizzata per nessuno. Ricordiamocelo.

Questo quadro mentale semi-stabile può andare avanti per mesi. Alla fine sei quasi tranquillo, hai le tue belle convinzioni che tutto sommato tengono. Vacillano ogni tanto, ma tengono. Dopotutto si tratta di pensare differente dalle logiche del mercato. Noi abbiamo una filosofia, un modo di vedere il mondo: non è tutta questione di vendite. Non può esserlo. C’è dell’altro.

Poi arrivano i rumors di un iPhone più grande. Lasciamo stare, sono indiscrezioni, da verificare. Tocca vedere… 

Poi arriva il Keynote. Settembre, nove.

Eccoli.

E qui c’è il crollo. iPhone 6. Molto più che più grande.

Ma come sarebbe? Un modello da 5.5 pollici? E tutta la storia del display troppo grande

Intendiamoci. E’ sicuramente un gioiellino. Anzi, un gioiello: anche nel prezzo.

Però rimango con un fondo di amarezza.

 

A forza di pensare diverso, a volte – azzardo – si può perfino tornare a pensare uguale. 

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Calcolare all’inverso, come i polacchi?

A volte capita. Capita proprio a tutti, ci mancherebbe altro. Ci sono dei programmi di uso quotidiano, quelli che proprio utilizzi senza pensarci. Senza andare in profondità, studiarne le caratteristiche, esplorare tutti i vari sottomenù. Eh già. Perché sono fatti così, in fondo sono proprio  fatti apposta. Li lanci e li utilizzi. Per esempio, fai il conto sulla lista della spesa, controlla quanto hai speso in cose inutili ad esempio (le più deliziose ed intriganti, come ben sappiamo). Come fai? Semplice, se sei su un Mac apri Calcolatrice ed inizi a batterci dentro i numeri. Tiri le dovute somme, eventualmente ti senti un attimo in colpa per i soldi spesi (appena un attimo, non più del dovuto) e poi via.

Quello è ciò che deve fare una calcolatrice: a costo di esser banale, lo ripetiamo: fare i conti.

Non è che ti aspetti molte sorprese, in fondo. Eccoti qui la calcolatrice, semplice come deve essere 

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Le immagini sono tutte screenshot di “Calcolatrice” su OS X 

Non ha certo l’aria di metter soggezione a qualcuno, non sembra una sua prerogativa quella di poter celare sorprese. Naturalmente quando i conti diventano un poco più complessi, si può sempre chiedere alla calcolatrice, per ora splendidamente basilare, di fare uno sforzo in più e diventare leggermente più scientifica… e lei prontamente obbedisce, slargandosi appena un po’ (la cultura prende spazio).

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Notate come abbiano fatto la loro comparsa tutte le funzioni trigonometriche insieme con i logaritmi (naturali, in base due – mai usati – e in base dieci) e altre simpatiche possibilità (come il generatore di numeri casuali, ad esempio).

Una possibilità ulteriore è quella della vista programmatore, e qui andiamo abbastanza sull’esoterico, per molte persone (me incluso). Notare come uno strumento semplicissimo, banale quasi in maniera irritante – nel primo caso – si è già trasformato in un tool particolarmente elaborato, capace di costituire un valido strumento di lavoro in un ambito decisamente particolare. 

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E già potrebbe essere abbastanza, per un programmino diciamo accessorio che viene insieme con il sistema operativo. Però non è tutto. 

C’è ancora da esplorare il “Mela-R”: la porta di accesso – come stiamo per vedere – ad una logica differente, ad un altro modo di mettere insieme i numeri.

Era lì che aspettava, ma io non lo sapevo. Grande dunque è stata la mia sorpresa quando ho capito che con “Mela-R” quella che è una ordinaria calcolatrice si trasforma ubbidiente in una calcolatrice che funziona secondo la logica della notazione polacca inversa (RPN, per gli amanti della concisione). Ora, direte voi, che cosa è mai questa notazione inversa? Ai più non dice nulla, siamo d’accordo.

Mi sembra logico.

A me riporta invece di colpo agli anni lontani dell’adolescenza. Di quando papà portò a casa fiero una prima calcolatrice Hewlett Packard. Che appunto oltre a fare un sacco di cose sbalorditive per l’epoca (come programmare ad esempio) aveva qualcosa di  radicalmente diverso dalle “altre”. Un vero modo di pensare differente. Una diversità tale che si imponeva anche di fronte ad un semplice calcolo, del tipo 2 +3 (lo so si può perfino fare a mente, se mi sforzo ci riesco, ma è per fare un esempio).

Il punto è che su una calcolatrice RPN non puoi fare 2 + 3 e battere il tasto di uguale.

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Per il semplice fatto (verificate qui sopra) che il tasto di uguale non esiste.

No, non esiste.

Non esiste perché non serve.

Abbastanza spiazzante, eh? Vediamo di fare un po’ di luce.

“La notazione polacca inversa (in inglese reverse polish notation o semplicemente RPN) è una sintassi utilizzata per le formule matematiche. Fu inventata dall’australiano Hamblin, filosofo ed esperto di computer, e fu così chiamata per analogia con la notazione polacca, inventata da Łukasiewicz. Con la RPN è possibile effettuare qualsiasi tipo di operazione, con il vantaggio di eliminare i problemi dovuti alle parentesi e alla precedenza degli operatori (prima la divisione, poi l’addizione ecc.). Alcune calcolatrici scientifiche utilizzano la RPN in quanto evita l’annotazione di risultati intermedi durante le operazioni.” (dalla relativa voce di Wikipedia)

Dunque, riepilogando la faccenda proiettata nell’evidenza di più immediata caratura, il tasto di uguale non serve. Perché se devo fare “2 + 3” prima introduco il 2, poi il 3, li mando all’insù nello stackinfine spingo il tasto”+” che processa i due numeri secondo l’operazione che voglio, e mi fornisce il risultato. E il gioco è fatto. 

Tornando a quel tempo, per me fare i conti (letteralmente) con una logica diversa era una piccola sfida e una possibilità di imparare qualcosa di nuovo. Soprattutto (come ogni  cultore del Perl sa bene) che c’è più di un modo per farlo. E che questo vale anche per le cose più banali. Era un tassello aggiuntivo della scoperta del mondo, un modo in cui mio padre mi stava dicendo che c’è un mondo da scoprire e questo mondo va ben al di là di quanto potevo allora figurarmi. Come oggi. Come in ogni istante. Ci sono più cose nel reale che nelle rappresentazioni di comodo che ci creiamo per illuderci di aver fatto completamente luce su di esso (non sia mai!).

Ecco. Ritrovare la logica RPN dentro la calcolatrice di sistema sul Mac, al di là del fatto che probabilmente non la userò mai veramente, mi arriva  come una deliziosa sorpresa, perché mi riporta ai tempi della giovinezza. All’epoca in cui il mondo era – appunto –  una continua scoperta. 

Che poi sempre lo è. Certo, alle volte uno un po’ se lo dimentica. 

Ma fortuna, basta fare “Mela-R” per ricordarselo.

 

 

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Nexus vs Ipad: Google Books o iBooks?

Al bar ci sono ancora poche persone, la luce scherza con la vetrata colorata. I quotidiani del giorno sono sul bancone ma i due non li guardano. Piuttosto appaiono concentrati su un oggettivo rettangolare, con uno schermo illuminato. 

Uno dei due alza lo sguardo, fissa l’altro con intensità.

– Che poi, alla fine quello che conta è il software

– Ma certo, sono d’accordo. Come potrebbe essere altrimenti?

– Ecco. Prendi per esempio la faccenda dei libri.

– I libri?

– Eh sì. Perché, anche se non è certo l’attrezzo ottimale, una cosa come un tablet si presta abbastanza bene ad essere usato come lettore di libri elettronici.

L’altro è perplesso, si vede.

– Forse.. forse sì. Ma tutta la faccenda della carta elettronica… che non stancherebbe la vista… come la mettiamo? Mi hanno spiegato al lavoro che per leggere il tablet non è la cosa più adatta…

– Certo, certo. Nessuno nega che la cosa migliore sia un lettore come il Kindle (o analoghi)  per quanto riguarda gli ebook. Anzi ti dirò che a me proprio il Kindle piace parecchio. Ma in mancanza…

-Signori i vostri cappuccini, prego

Il cameriere è gentile e sorride. E’ bello stare in un posto dove ti sorridono, pensa Marcello. E’ proprio un bel bar, questo, quasi lo vorrebbe dire a tutti, anche al cameriere. 

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  Photo Credit: MomentsForZen via Compfight cc

– Ok in mancanza? Prendi un tablet e leggi lo stesso, non è vero? Mi vuoi dire questo? – Sergio lo richiama all’argomento della loro conversazione.

– Esatto. Esatto. Ma vediamo un po’, come lo fai?

– Che vuol dire?

– Con che software lo leggi, questo benedetto libro? 

– Boh.. con il software per Kindle, per esempio?

Marcello prende un sorso di cappuccino. Guarda la luce giocare con la vetrata colorata dell’ingresso, e per un istante viene distolto dai pensieri. Cerca di recuperare il filo della conversazione.

– Il software per Kindle? Sì certo, quello c’è dappertutto. L’esperienza di lettura è analoga sui diversi dispositivi. Ma facciamo un’ipotesi un po’ più significativa. Immagina di avere un documento in epub e volerlo leggere sul tablet. 

– Sì ho infatti gli appunti di…

Marcello gli mette una mano sul braccio, come per interromperlo (in conseguenza di ciò, il cappuccino nella tazza compie una vistosa oscillazione ma senza inopportuni straripamenti).

– Ok benissimo. Ora, che fai con il Nexus 7? Lo carichi su Google Book, che è il lettore predefinito. Sull’iPad il documento si aprirà naturalmente dentro iBooks, che detto tra noi è un ottimo software. Ma…

– C’è un ma…? – fa Sergio, un po’ interdetto (ma sollevato perché il cappuccino non ha tracimato come temeva).

– Ecco, iBooks ragione in gran parte dentro il tuo tablet. Se carichi un libro dallìiPad, poi ecco, te ne vai in giro, sei in fila all’ufficio postale, e provi d’un tratto un desiderio…

– Quello di mandare tutti a quel paese, prendere a parolacce l’addetto allo sportello che è sempre imbranato… ed andarmene?

Anche. Ma non solo. Volendo rimanere in fila, ti piacerebbe continuare a leggere il tuo libro, magari con l’iPhone…

– Sì, questo sì…certo, volendo rimanere in fila…

Ecco, in iBook non lo trovi. Dovresti caricarlo separatamente per ogni device. Questo, essenzialmente, perché Apple è centrata sui dispositivi. Mentre Google Books ragiona in maniera diversa

– Cioè, come ragiona?

– Secondo il paradigma di Google, ovviamente.

– Già, stupido io a non pensarci. – fa Sergio, lievemente seccato perché ancora non ha capito.

Marcello lo guarda, capisce che non si è spiegato. Bene un bel sorso di cappuccino e si guarda intorno. Cominciano ad arrivare le persone al bar, una coppia parla fitto dall’altra parte del bancone. Un tipo distinto con gli occhiali e la barbetta legge il giornale sulla pagina sportiva. Una foto gigante di Totti occupa gran parte della pagina.

– Beh, semplice. Google ragiona in modo web-based. Tutto quello che carichi nelle applicazioni Google è di norma subito spedito nella nuvola. 

Dove lo spedisce…?

– Nella… in rete, se preferisci. Così se apri Google Books da qualsiasi dispositivo, trovi a disposizione tutti i libri che hai comprato o caricato da altri computer o dal tablet o dove vuoi tu. Scarichi in locale quello che vuoi e leggi.

– Carino…

Comodo, soprattutto.

– E con Apple?

– No, lì funziona solo per i libri comprati nello store di Apple. Gli altri che carichi, devi farlo separatamente per ogni dispositivo.

– Ma è più comodo Google Books allora – dice Sergio con una faccia come se si stesse finalmente compiendo un quadro interno coerente dentro la testa

– Direi di sì. Comunque questo non esaurisce la disamina e … mamma mia quanto è tardi, devo correre al lavoro!  – esclama Marcello

– Pago io i cappuccini, a patto che … – interviene Sergio.

– A patto che? – fa Marcello sulle spine: si vede che ha fretta.

– Che un’altra mattina di queste mi spieghi qualche altra cosa di questo Nexus, va bene? – sorride Sergio.

Marcello fa un cenno divertito, è già avviato verso la porta.

Apre e il sole si spande nell’ingresso. Il signore col giornale lo muove un po’ infastidito per evitare il riflesso. La luce gioca col faccione giulivo di Totti.  L’uomo ha messo un braccio intorno alla vita della donna e le parla piano, lei ha gli occhi lucidi ma ora sta sorridendo.

Sergio prende le cose e si muove verso la cassa. Guarda la porta a vetri e le ombre delle fronde degli alberi sul viale sembrano divertirsi di questo ancora incerto sole di primavera, creando un intarsio mobile di mille colori. Lo interpreta come un buon segno. Come il sorriso della donna. 

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Tablet: perché sto (ancora) con Apple

Mi piace abbastanza, lo ammetto. Mi piace riflettere sulle scelte che portano una persona all’adozione di determinati “attrezzi tecnologici”: perché dietro le scelte, raspando bene, sovente si scopre un mondo assolutamente non tecnico o arido, ma di una densa e variegata umanità. E l’umanità è sempre la cosa più interessante.

Allora mi viene da chiedermi, in diverse occasioni e in varie conversazioni, se la scelta dell’iPad come tablet, a fronte dei costi e tutto il resto, abbia ancora un suo pieno senso. Intendo adesso, allo stato attuale. Ora che l’offerta Android è enormemente maturata, sia per varietà di modelli che – assai più importante – per qualità del software. E con un prezzo mediamente più basso, rispetto al tablet di Apple. Certo la situazione è cambiata radicalmente rispetto a due anni fa (e qualche giorno), quando mi decisi a fare il grande passo… e mi feci regalare un iPad 2 (il più recente, per l’epoca) .
Lo uso ancora adesso, con buona soddisfazione. Certo è diventato un po’ lento in alcune applicazioni. A volte anche in maniera irritante. Ma nel complesso, considerato che due anni per questi aggeggi sono un tempo enorme, non mi posso proprio lamentare. E tra l’altro sono contento che Apple abbia incluso anche il mio device nell’aggiornamento a iOS7. Così – pur con qualche limitazione, dovuta al mio hardware – ho ancora la possibilità di utilizzare il sistema operativo più recente. Non credo che chi ha comprato un terminale Android a fine 2011 possa essere nella medesima situazione… o sbaglio?
Comunque è innegabile che i dispositivi Android abbiano fatto dei passi avanti giganteschi, in questi due anni. Anche la diversificazione di offerte che lo ha sempre contraddistinto (per gli estimatori: varietà, per i denigratori: frammentazione), ora ha un margine, si infrange contro un punto di stabilità: i dispositivi direttamente sponsorizzati da Google, ovvero la serie Nexus. Piaccia o non piaccia, ora come ora costituiscono il riferimento per Android, la  più diretta controparte dei dispositivi Apple.
Che farei, adesso, se dovessi ricomprarmi un tablet? Come mi orienterei?
iOS oppure Android? Ah decidere, decidere…!
Ebbene, credo che comunque sceglierei sempre Apple, mi orienterei nuovamente verso l’iPad (se le tasche me lo permettono). Perché, diranno i miei pochi ma (spero) affezionati lettori? Non sono splendidi certi terminali come il Nexus 7? Sì è molto appetitoso e non nascondo che mi piacerebbe giocarci un po’. Ma se devo pensare ad un unico tablet devo tornare sull’iPad (ah quanto mi piacerebbe un iPad Air, al proposito…)

Perché, dunque? Fissazione per gli oggetti con la mela? Non proprio – o almeno, non soltanto. Il punto è: cosa lo compro a fare un tablet? Ovvero, cosa ci voglio fare? La risposta è squisitamente personale, non generalizzabile. Non c’è un terminale migliore, c’è un terminale più o meno adeguato a quello che vuoi farci.
Nel mio caso, è presto detto. C’è ovviamente un bel mucchio di cose (leggere la posta, girare per il web, sentire la musica, vedere i video, leggere libri, prendere note e appunti, etc…) che potrei fare egregiamente sia con l’iPad che con il Nexus. Accanto a questo, però, esistono delle cose a cui non voglio rinunciare, e che (al momento) non posso fare con un terminale Android.
Vediamo un po’…
  • Non posso leggere i numeri di Poesia in digitale. C’è solo l’applicazione per iPad, il che mi vincola a farne a meno o a rimanere su iOS. E a me non va di farne a meno
  • Non posso leggere i numeri di Tracce. Stesso discorso che per il punto precedente…
  • Non posso usare DayOne per aggiornare il mio diario. E non mi va di cambiare applicazione, mi piace troppo questa. Al di là dello spinoso problema  di riuscire a trasferire  i dati di oltre due anni in una diversa applicazione, ovviamente…
  • Quasi lo stesso discorso per MomoNote, dove inserisco citazioni e cose notevoli che leggo nel web e non voglio disperdere.
Che dite…? Ah sì, certo. Avete ragione. Ovviamente si potrebbe compilare una lista inversa. Le cose che potrei fare su Android e non posso fare su iPad. Fino a poco tempo fa la mancanza più fastidiosa per me era un client ufficiale per Play Music su iOS, mentre da mesi e mesi esisteva per Android. Ma ora c’è anche per i dispositivi Apple e dunque – per me – il discorso cade.
Insomma tutte le discussioni su quale sistema sia meglio non mi convincono. Come con chi volesse sostenere che le mele sono meglio delle pere (o viceversa), dovrei riguardare la questione come mal posta.
Il mio punto è ormai chiaro: la scelta è personale e dipende in larga parte dal software che si intende utilizzare.
Semplice, non trovate?

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