Termini di servizio

Intorno a tutto il clamore per la chiusura dell’account Twitter di Donald Trump mi pare vi sia un fraintendimento. Soprattutto da parte di chi grida alla “censura”. Ragazzi, ci stiamo forse dimenticando una cosa semplice, ma essenziale. Twitter, Facebook (e gli altri) non sono servizi pubblici, sono aziende private che fanno quel che fanno per un ritorno economico, non certo per garantire una prestazione di pubblica utilità.

In nessun modo essere “bannati” da un social equivale ad essere censurati (se lo si percepisce così è perché il nostro mondo è dopato dalla comunicazione su Internet). Usando l’infrastruttura di un social per pubblicare i nostri pensieri, siamo semplicemente (piaccia o no) ospiti e mai padroni di casa (e i nostri dati, parimenti). Ogni social come Twitter ha i suoi termini di servizio in base ai quali, peraltro insindacabilmente, può decidere di metterti alla porta. Termini di servizio che ognuno di noi, incluso Donald Trump, ha dovuto formalmente accettare al momento dell’iscrizione.

Così, se è ipotizzabile che una autorità pubblica possa intervenire per chiedere di oscurare determinati account (incitamento alla violenza, terrorismo etc) non mi pare ugualmente pensabile che si possa pubblicamente protestare quando questo oscuramento viene deciso dal servizio medesimo. Io, rappresentante della collettività, posso dirti cosa non devi pubblicare, non posso certo dirti cosa devi pubblicare, in pratica. Decidi tu, sono i tuoi server. Dopotutto, è casa tua.

Le regole le fa il padrone di casa… 

Infatti, se ci guardate bene, Twitter dice che l’account di Donald è bloccato per violazione dei termini di servizio. Questo è. La cosa strana anzi è che non sia accaduto prima (sarebbe un altro argomento da sviluppare).

Nessun problema, dunque? No, il problema c’è, ed è grande. Ma non è legato direttamente alla censura. Viene detto molto bene in questo tweet di Licia Troisi.

Eccolo qui, il vero problema.

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Le vaccate e la lotta

Decisamente interessante il fondo di Luca Sofri significativamente titolato Vaccate apparso pochi giorni fa su Il Post. Riguarda qualcosa che interessa ognuno di noi, riguarda l’abbattimento verso il basso di tanta comunicazione.

… del meccanismo democratico si sono impadroniti in questi anni coloro che ne hanno capito i trucchi (una cattiva informazione, un lavoro di propaganda menzognera, una celebrazione dell’ignoranza e dell’egoismo, lo rendono sterile e fallimentare), e le leggi del libero mercato in assenza di principi etici generano mostri e ingiustizie, lo sappiamo da secoli.

Che sia la pubblicità che domina l’universo neoliberista è ben noto. Che sia il vero pilastro intorno a cui tutto si organizza, l’unica cosa indiscutibilmente vera in questa distorsione di priorità e di valore in cui siamo da tempi immersi. 

Più bravi noi di loro, a fare vaccate… 

Quello che a volte ci manca è il desiderio concreto di uscirne, e prima ancora meglio la percezione che sia possibile uscirne. There is no alternative è la risposta usuale del nostro cervello davanti a questioni del genere. Raramente ci viene da pensare che possa essere una menzogna, che ripetiamo a noi stessi. Che si può lavorare verso qualcosa di nuovo, di diverso, di migliore. Iniziando proprio dal linguaggio, dall’uso delle parole, che è poi il vero tema dell’intervento di Sofri.

La vera vaccata sarebbe questa, dopotutto. Rinunciare a cambiare.

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Paola, e la bellezza intorno

Non c’è niente da fare, apparentemente.  Siamo abituati al lamento, e questa attitudine irriflessa, che spunta sempre inesorabile, quando non siamo intimamente disposti ad un lavoro su di noi, si riflette e si trasmette in quello che vediamo ed incontriamo. Ed ovviamente (ed è per questo che ne scrivo qui) anche nel mondo digitale, che è specchio abbastanza fedele di quello che usiamo chiamare reale. 
Questo mondo dei social, che illustri analisi di esperti ed esternazioni di meno esperti, consegnano spesso ad un giudizio negativo senza possibilità di appello (salvo poi, almeno per i non più giovanissimi, ad usarlo comunque, al ritmo inesorabile della quotidianità), ecco, questo mondo dei social, ha una sua parte buona, una parte virtuosa che noi pure utilizziamo, di cui ci gioviamo, ma senza quasi accorgercene. 
Ovvero, senza mettere l’accento sul positivo. Che pure ci farebbe bene, molto bene.

Quanta “carica positiva” può passare su Internet? Più di quanto pensiamo…

Per questo credo che raccontarci storie buone che riguardano l’uso dei media, non significhi affatto chiudere gli occhi sui tanti usi distorti che se ne possono fare, e che ben conosciamo. Tutt’altro: significa rischiare di aprirli davvero, quegli occhi, e mettersi di fronte ad una rivoluzione totale del modo di agire e pensare, il cui meccanismo propulsivo si trova proprio in questa innovazione tecnologica che ha investito la fine dello scorso secolo, di importanza senz’altro paragonabile all’invenzione della stampa nel quindicesimo secolo.

Mi è capitato l’altro giorno di leggere il bell’articolo di Massimo Mantellini su il Post, La storia di Paola e noi, che è un luminoso esempio di tutto questo. Il caso concreto che racconta, e che vi invito a leggere, è la dimostrazione limpida e commovente di quanto asserisce in apertura di articolo,

C’è una quantità enorme di bellezza nascosta intorno a noi. Ovunque, anche negli ambienti digitali, a dispetto di quello che sembrerebbe. Accanto all’orrore manifesto che salta subito agli occhi, all’odio, alla pochezza che ci colpisce e ci capita di sottolineare ogni giorno, esiste una quota molto grande di umanità e gentilezza che naviga sottotraccia, invisibile ai più, che racconta la complessità e le sorprese inattese del mondo. 

Mai come in questo periodo va ricordato tutto questo. Dobbiamo essere grati di avere accesso ad un mondo digitale, che in realtà (sarà superfluo ricordarlo) non vale certo di per sé, ma per connetterci gli uni gli altri. Vale come una estensione della nostra umanità, vale nella misura della nostra aumentata capacità di stendere reti.

Mai come adesso, in un periodo nel quale illustri ministri ci diseducano all’uso appropriato dei social network, abbassando drasticamente la frequenza di trasmissione e coinvolgendoci in piccole beghe di un mondo litigioso, individuando sapientemente il nemico di turno (oggi una nave di una ONG, oppure [sic!] una comunistella tedesca, e spesso, alcuni poveracci in cerca di una vita dignitosa…), per esiziali strategie del consenso, facendoci credere, inducendoci a pensare, che il mondo sia veramente piccolo così, sia davvero povero così.

No, il mondo è molto più poetico e vasto e spazioso di questa degradazione mediatica di piccolo cabotaggio, che inquina prima il mondo del digitale e poi – di conseguenza – avvelena i nostri stessi pensieri (e basta vedere il triste codazzo di commenti furibondi a tanti post, con frasi assolutamente improponibili per livello di inciviltà raggiunto, basta vedere questo per capire che stiamo giocando con il fuoco).

Ecco perché è bello e giusto lavorare diversamente. Perché è bello e giusto, allora, raccontare di Paola, di una ragazza che affronta il suo male con ironia e leggerezza, e usa Twitter per trasmettere segnali di vita buona, di una vita effervescente e che non si arrende nel dolore della malattia, non si richiude nel lamento. Una vita che insegna, tanto, a tutti noi (che facciamo finta di essere sani, per dirla con Gaber).

 La storia di Paola, in fondo, è la la storia di noi che abbiamo ancora una speranza. Anche quando sembrerebbe di no.

Giova ricordare, raccontare di queste storie, allora.

Facciamolo, continuiamo a farlo, continuiamo senza stancarci a ricercare e stanare la vena d’oro nel mare magnum di Internet. Portiamo a galla la bellezza, estraendola dal dato, e portandola al cuore.

Soprattutto adesso. 

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Quindici anni dopo (un rischio da riscoprire)

Come passa il tempo! E non potrebbe iniziare in modo differente questo post. Ora che Gmail ha appena compiuto il suo quindicesimo anno, mi viene da ripensare ai primi momenti di vita, al suo esordio. Che io ho praticamente vissuto, insieme con lei.

Ricordo bene l’entusiasmo dell’inizio, di quando Gmail stava aprendo progressivamente al pubblico, e veniva distribuito ad inviti. Ogni iscritto aveva a disposizione, mi pare, appena una decina di inviti. Mi è stato detto che venivano anche messi in vendita su Ebay. La gente aveva davvero voglia di provare qualcosa di nuovo, per la posta elettronica. Si era nel 2004, ma già quel senso di novità premeva. Il protocollo email del resto è una delle cose più antiche che abbiamo nel campo delle comunicazioni telematiche, che resiste splendidamente anche a coraggiosi (e defunti) tentativi di innovazione

E quella trovata dello spazio disponibile, che aumentava piano piano? Una cosa in completo stile Google, ovvero con quell’idea di divertimento che aleggia anche su progetti su cui si punta molto. Ma era così. C’era un contatore, nella propria area email, che segnava momento per momento l’ammontare di spazio di archiviazione a cui si era arrivati. Tutto cominciò, come sappiamo, da 1 gigabyte, che a suo tempo sembrava uno spazio assolutamente immenso. A quel tempo, gli account gratuiti offrivano ambienti di qualche decina di megabyte, più o meno. Un gigabyte sembrava una cosa del tutto impossibile da riempire, nemmeno in una vita. Sappiamo bene che non è così, soprattutto al giorno d’oggi e con l’aumentare dei contenuti multimediali trasmessi anche via email; a quel tempo, la situazione era davvero diversa. 
E fu il mio inizio. Senza troppo sperarci, chiesi su un forum un invito a chi ne aveva disponibili, e mi arrivò (gratis, grazie al cielo). Così registrai subito il mio account m.castellani e iniziai, iniziai questa avventura. Da allora non sono più sceso da gmail, mi trovo bene e apprezzo molto le sue qualità. E’ il sistema di posta elettronica, per me. 
Tanto più vero, da quando anche il mio istituto si è affidato a Google per la gestione della posta, e dunque anche i mail di lavoro li leggo sempre con la interfaccia Gmail (che uso da anni tramite l’ottimo e robusto MailPlane, che mi libera dal dover usare il browser per leggere i messaggi di posta, regalandomi la flessibilità e l’indipendenza di un programma dedicato).

Così Gmail ha assorbito integralmente le mie modalità di fruizione della posta elettronica; nel tempo, ha lavorato sui fianchi tutte le altre soluzioni e le altre possibilità. E’ rimasta solo lei. Fino a che qualcuno oserà di nuovo, proporrà una visione più ampia, farà il prossimo passo avanti.

Ma ora, accantonata anche la parte più biografica, vorrei concludere con un piccolo pensiero, giusto per provare ad allargare lo sguardo.

Gmail è stato coraggioso fin dal suo sorgere. Innovativo in una grande quantità di modi, ha mostrato nel 2004 che su Internet c’era ancora posto per la creatività e per una sana innovazione. Ha costretto molte persone a ridefinire l’idea della posta elettronica, traghettandola definitivamente nel nuovo millennio.

Adesso il rischio è perdere questa spinta, lasciarla svaporare, acquietarsi su una rete che appare propagazione irriflessiva dello status quo e specchio troppo fedele dell’onnipresenza della pubblicità, unica entità veramente indiscutibile in un modo telematico, un tempo felicemente disordinato ed anarchico, ora troppo dominato da logiche commerciali. Una rete che – di conseguenza – è più che mai, alla ricerca di un senso.

C’è bisogno di rischiare qualcosa di nuovo, sulla rete. Rischiarla in nuova progettualità, delle aziende, delle associazioni, dei singoli. Perché a volte questo (ragionevole) rischio, paga. 

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Una nuova Europa digitale

Sono momenti particolari, quelli in cui viviamo. E’ proprio un’epoca straordinaria, unica. Dove il dato digitale orma interferisce con la vita reale nel senso che influisce – con inedita decisione – su quest’ultima. Il digitale, la grande rete (diciamo, Rete), è un mondo che innerva il nostro mondo, in una rete biunivoca di infinite corrispondenze. 
Avendo vissuto un’epoca in cui praticamente nessuno si occupava della Rete e dei fenomeni ad essa collegati, che pure sono stati vivi fin da subito, trovo significativo che ormai la stessa Rete trovi spazio in ogni serio documento che, dai punti di vista più disparati, si ferma ad analizzare lo stato delle cose e le possibili soluzioni per un cambiamento. 

Non fa eccezione il recentissimo manifesto di Emmanuel Macron intitolato “Per un Rinascimento Europeo” che è stato pubblicato in diverse lingue (tra cui quella italiana) sul sito dell’Eliseo. Non ci interessa in questa sede entrare in una analisi politica del testo, non è assolutamente nostro compito o nostro obiettivo. Stiamo al nostro focus che è di analizzare ciò che accade dal punto di vista specifico di come la tecnologia entra e modifica il quotidiano. 
L’Europa, è anche una serie di connessioni, è una autostrada digitale.
Da tenere pulita, aperta, libera, neutrale. 
In tal senso, il documento ha alcuni passaggi di deciso interesse. Nel paragrafo Difendere la nostra libertà, in esso si può infatti leggere

Il modello europeo si fonda sulla libertà dell’uomo, sulla diversità delle opinioni, della creazione. La nostra prima libertà è la libertà democratica, quella di scegliere i nostri governanti laddove, ad ogni scrutinio, alcune potenze straniere cercano di influenzare i nostri voti.

Ed è chiarissimo il riferimento a come i social media siano stati recentemente usati (e possono esserlo, sempre e di nuovo, in modi più o meno leciti) per influenzare l’opinione pubblica in un ambito così delicato come quello elettorale. Usati da privati e da potenze straniere. Riconoscerlo è un primo modo di difendersi: riconoscere il problema è un primo passo verso la soluzione.

Propongo che venga creata un’Agenzia europea di protezione delle democrazie che fornirà esperti europei ad ogni Stato membro per proteggere il proprio iter elettorale contro i cyberattacchi e le manipolazioni. In questo spirito di indipendenza, dobbiamo anche vietare il finanziamento dei partiti politici europei da parte delle potenze straniere. 

Si delinea infatti una strada possibile. O almeno, si individua un percorso possibile per una soluzione. Soprattutto, si mette in luce correttamente un problema.

Dovremo bandire da Internet, con regole europee, tutti i discorsi di odio e di violenza, in quanto il rispetto dell’individuo è il fondamento della nostra civiltà di dignità.

Questo, infine, potrà sembrare utopistico per taluni. O forse potranno sembrare belle parole. Trovo comunque saggio e interessante che venga scritto nero su bianco, che venga – per così dire – individuato chiaramente questo bisogno.  
Si dice in un altro punto del documento, che 

L’Europa, sono anche quelle migliaia di progetti quotidiani che hanno cambiato il volto dei nostri territori, quel liceo ristrutturato, quella strada costruita, l’accesso rapido a Internet che arriva, finalmente. Questa lotta è un impegno di ogni giorno perché l’Europa come la pace non sono mai acquisite. 

Quel finalmente, mi pare, balza fuori come una concessione quasi al parlato, rispetto alla struttura formale del documento. Ma dice bene come i nostri bisogni di connessione, di comunicazione, passino in maniera sostanziale nella Rete. E che bisogna tutelarne l’ambito, dissodarla e coltivarla come un giardino, perché appunto anche la sua pulizia non è mai acquisita. 
Ma è bello metterlo a tema e lavorarci, è sano.
Verso qualsiasi parte politica si propenda. 

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Venti anni dopo (i.e., sognare ancora)

No, non si parla del seguito del celebre romanzo I tre moschettieri, di Alessandro Dumas, ma del fatto che Google compie venti anni, e lo fa esattamente oggi. Questa è una delle (non troppo frequenti) occasioni in cui uno può utilmente vantare la sua età non proprio minima per articolare una riflessione ampia sul fenomeno. 
Se non altro, perché, insomma, lui c’era. 

Infatti. Io c’ero. Venti anni sono tanti. Vuol dire che molte persone sono nate e vissute interamente nell’era Google, non sperimentando quel che c’era prima. Per non parlare delle persone che non hanno ricordi dell’era pre-Internet. D’accordo. 
Ma ricordare l’epoca pre-Google è già, di per sé, scavare in un passato (informaticamente) remotissimo. Però può servire, può essere una testimonianza che non tutti possono produrre, di prima mano. Il fatto è questo, comunque: venti anni di Google inevitabilmente, rimandano a quel che c’era, prima
Oggi cercare qualcosa è totalmente sinonimo di usare Google (con buona pace di Bing e dei simili tentativi). E’ automatico. Poi se uno cerca con Chrome, automaticamente chiama il motore di ricerca Google, quindi non se ne accorge nemmeno. 
Eppure, prima, era diverso. Prima c’erano altri motori. C’è stato un tempo che cercare su Internet era sinonimo di cercare con Altavista. A molti questo nome non dirà nulla, Altavista. Eppure era il motore di ricerca su Internet, senza alternativa. Era come Google adesso, pari pari. 
Poi venne l’epoca Yahoo!, o meglio di Internet 1.0. Era lo standard, Yahoo!, delle ricerche su Internet. E aveva piano piano costellato la sua offerta di tanti servizi aggiuntivi, gruppi, chat, giochi, storage (la famosa Valigetta Yahoo! antesignana di Drive, Dropbox, Onedrive e simili, repentinamente scomparsa). Tutte cose che sono appunto sparite o si sono congelate, come i Gruppi Yahoo!, residuo cristallino – quasi un fossile in ambra – una sorta di capsula  impermeabile dell’epoca uno-punto-zero piovuta qui fino a noi, in un tunnel informatico, stranamente persistente.
Poi venne appunto l’epoca Google, che è quella che stiamo vivendo (con aggiunta di Facebook, se vogliamo, Microsoft e pochissimi altri soggetti). Non sappiamo quanto durerà e non sappiamo cosa verrà dopo. Non è chiaro, nemmeno, come queste diverse fasi si avvicendino, quando e perché un soggetto commerciale ceda il passo ad un altro. 
Ma accade. 
Così i venti anni di Google in realtà ci interrogano, a livello più profondo, a capire come mai Internet si è sviluppato e polarizzato in questo modo, ovvero agglomerandosi intorno a pochissime entità commerciali molto potenti, sacrificando quella meravigliosa (e un po’ anarchica) diversità che per molti begli anni è stata la sua principale caratteristica. 
Google ha venti anni e Internet, di suo, ha messo la testa a posto. Anche troppo, secondo alcuni. Ha rinunciato ai sogni, ha abbracciato la logica commerciale (ormai intesa come inevitabile ed incontrastabile), ha perso iniziativa e spontaneità, ha depennato agevolmente l’entusiasmo degli inizi, dove bastava una buona idea per realizzare un progetto di successo sul web. Del resto, oggi il web è così complicato che nessuno, da solo, può sognarsi di realizzare niente. 
Sarà una crescita, sicuramente, ma c’è anche tanto rimpianto, tanta nostalgia dei tempi passati. Google è maturo, ma noi ci permettiamo di rimpiangere i tempi in cui era ancora bambino.
Tempi in cui fiorivano mille e mille progetti, in cui ogni giorno sul web si incontrava, davvero,  la creatività in azione. Oggi il commercio ha preso il posto dell’inventiva, non si sogna più come un tempo. E’ un business, Internet, non una palestra di invenzioni. 
I giganti hanno spazzato via la panoplìa allegra ed irregolare dei piccoli. 
Forse, un’altra epoca può arrivare, deve arrivare.
Se non smettiamo di sognare, però.

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Tu conti, come persona

L’abbiamo detto tante volte, ormai la connessione globale, continua, è la norma, per tutti. 
L’eccezione è quando non si dispone di accesso alla rete, semmai. E’ un caso che è sempre più improbabile, sempre meno gestibile (ovvero accettabile, per il senso comune), via via che il tempo passa. Non vi annoierò raccontandovi di come era prima, prima che ci fosse Internet, e poi delle connessioni a consumo, quando si stava collegati appena pochi minuti e il contatore girava, e tutte queste cose qui.
No, oggi vado a vedere come reagiamo, come reagiscono i nostri strumenti di elezione – i browser – quando si trovano di fronte l’imbarazzante ed improbabile evento di non avere connessione alla Grande Rete Universale. 

Non è una indagine con velleità di completezza. Nemmeno, che voglia dimostrare qualcosa. Giusto una curiosità, tanto per vedere. 
Ecco come reagisce Chrome, ad esempio, se si è improvvidamente fuori rete. 

Il tono è parecchio sobrio, ti informa che niente, non puoi navigare. Vedi un po’ tu, allora, di risolvere la questione, perché così è francamente intollerabile: il dinosauro lì mostrato, unico accenno ad un approccio un po’ ilare del problema, ti fa capire che sì, ecco, giusto i dinosauri, loro non avevano Internet, e non c’è nessuna necessità ed utilità di stare senza rete. Tra l’altro, senza rete Google ci perde, perché non passa la pubblicità, insieme ai siti. E’ il caso, dunque, di rimanere all’epoca dei dinosauri? Dài, spicciati a risolvere il problema. Ritorna online, ritorna fruitore. Non ci far spazientire.
Vediamo ora come reagisce Firefox
Anche esso molto sobrio, anzi di più: non compare nemmeno un dinosauro (per dire). Ma alcune informazioni ti aiutano a capire se è un errore umano oppure di qualche altro tipo. Sembra sotto sotto, comunque, che ci sia un po’ di speranza, un po’ più di speranza rispetto alla desolazione di Chrome offline, tutto sommato (secondo me Chrome soffre ad essere offline). Cioè, il problema esiste, siamo d’accordo, ma forse si può ancora fare qualcosa. Già Impossibile contattare il server, fateci caso, è meno disperatamente drastico di Connessione Internet assente. 
Le parole non sono a caso; le parole sono importanti. 

Per me la cosa più bella però è la reazione di Edge, il nuovo browser di casa Microsoft. 
Diciamolo: è l’unico che cerca di rianimarti un poco. Intanto ti fa capire che tu esisti. Che non sei un granellino insignificante di fronte alla preponderanza e alla pervasività del Sistema Mondiale Globalizzato (cioè Internet). Ora, guardiamo la cosa con calma. Prendiamolo sul serio. Ti dice “Non sei connesso” e questa informazione, ovvio, te la deve dire. E’ la realtà dei fatti, baby, piaccia o non piaccia è così. 
Però la butta subito sulla valorizzazione della persona (di te, proprio di te): E il Web non è lo stesso senza di te. Questo, insieme al cuoricino spezzato del disegno, ti rincuora un po’ (vabbè, un pelo ruffiano, ma lasciamo perdere questo aspetto). Cioè, ti dice, ti rassicura, io non ci sono, ma quelli comunque sentono la mia mancanza. Ovvero, tu non sei irrilevante, ovvero tu contribuisci al web, non sei un semplice fruitore. Possiamo dire, azzardare, che c’è un accenno ad un pensiero creativo. Tu puoi aggiungere valore al web. Che poi è così: se solo ce lo ricordassimo più spesso. 
E non trascura di fornirti speranza, di non farti naufragare nel disagio: “Verrà riattivata la connessione” è come un amico, un parente, che ti dà una pacca sulla spalla e dice coraggio, andrà tutto bene, tutto si risolverà, vedrai. Vero o non vero, è la cosa che ci vuole, in questo momento drammatico. 
Poi certo ti fornisce alcuni semplici consigli, di quelli che li penseresti da solo (saranno attaccati i cavi?, il wireless è acceso?), ma almeno ti ha messo un po’ di buon umore. 
Facendoti capire che tu conti, come persona. Ovvero, dicendo la semplice, rivoluzionaria verità. 

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Una rete di meraviglie?

Questo è il punto. Ormai non ci meravigliamo più. Siamo capaci di trascorrere le giornate, infatti, considerando “normale” quello che solo fino a pochi anni fa avrebbe destato la più grande meraviglia. Come appare normale, ormai, l’idea di essere sempre connessi.
Dovunque andiamo ormai ci aspettiamo di poter avere l’accesso ad Internet. Eh sì, perché ormai l’accesso ad Internet è diventato sempre più portatile, quasi ormai indossabile, e dunque non siamo troppo disposti a farne a meno. Anche perché, sempre più attività si svolgono sul web.

Pare strano, adesso, pensare a quando Internet non c’era. Ma appare ancora più strano pensare all’epoca in cui Internet, pur esistendo, non era diffuso così capillarmente come adesso, non era percolato nelle più varie attività umane. Pare strano, per chi ha vissuto l’epoca di transizione dal non connessi al sempre connessi, con tutte le gradazioni che si sono prodotte, nel tempo. 
Non sempre ce ne rendiamo conto, ma siamo sulla soglia di una rivoluzione epocale. Soprattutto, penso, non se ne rendono conto i nativi digitali, le persone nate e cresciute con Internet, con l’idea di averlo sempre a disposizione, con la sensazione sottopelle che sia una cosa eterna ed immutabile.

A volte penso che questi nativi  si siano persi una cosa formidabile. La sensazione frizzante di una cosa nuova e bella che stava arrivando. Non capita tutti i giorni, una rivoluzione così. Ricordo la meraviglia di caricare una pagina web, anche semplice semplice, solo testo e una figura piccolina. Niente interattività, niente javascript, AJAX, applet, cose che si modificano da sole, niente. Pagina totalmente statica.

Ma già realizzare di poter seguire una serie di collegamenti, che ogni pagina può essere collegata ad una miriade di altre, in un gigantesco e potenzialmente illimitato ipertesto, già il presentimento timido di iniziare dunque un’esplorazione che virtualmente può non avere mai fine. Già questo, già questo rimarrà per sempre una cosa straordinaria. Che solo una piccola parte di umanità potrà mai aver provato (sì, posso dire, per quel che vale, io c’ero).

Ancora di più, la scoperta di poter creare dei contenuti ed esporli in questa rete. Che siano potenzialmente fruibili in Giappone, in Asia, in Antartide. Dovunque. Ma come poterlo pensare, prima di Internet?

A ripensarci, è avvilente che usiamo tutto questo, che sfruttiamo questa rete di meraviglia, a volte, semplice-mente per questionare su Facebook. Ma ci sta, anche questo ci sta. E’ umano, totalmente umano. L’importante è rendersi conto, rendersi conto di che strumento formidabile abbiamo a disposizione. Sottrarlo un momento dal velo opaco dell’abitudine – sotto il quale l’abbiamo sepolto – per meravigliarci, di nuovo.

Dopotutto Internet, senza la meraviglia, è morto, è una cosa morta.
Con la meraviglia e lo stupore, veicolati in rete, possiamo fare grandi cose.

Ora, e sempre. 

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Quando arrivò Mosaic…

Arrivò Mosaic, come uno schianto. Mosaic era una finestra su un mondo incredibile, con delle potenzialità assurde, impreviste, straordinarie. C’era questo pannello che quasi magicamente si riempiva di contenuto – piano piano, si intende – digitando una stringa di un indirizzo Internet. Immagini, figure. Cose elaborate altrove che piovevano dentro il proprio elaboratore. Siamo nell’angolo più remoto degli anni novanta, il loro inizio; secolo scorso, millennio passato.
Era una cosa alla quale non eravamo abituati. C’era già il protocollo FTP, c’era la posta elettronica. Esisteva la possibilità di spostare bit da un computer ad un altro, anche molto lontano. C’erano sistemi come Gopher che iniziavano ad abituarci al concetto di server al quale accedere – perlopiù in modalità testuale – per consumare dei contenuti. Certo c’era la rete Usenet, per i forum. Il BBS associato alla rivista MCmicrocomputer; iniziava insomma già a percolare l’idea di connettersi ad un computer remoto per scaricare software.

All’Osservatorio di Teramo (dove bazzicavo al tempo) c’era la rete, certo. Era la rete DECnet, che collegava i computer VAX del centro calcolo con il mondo esterno. Del sistema VAX ricordo alcune caratteristiche interessanti, come il versioning automatico dei file (ogni nuovo salvataggio di file veniva automaticamente etichettato con un numero progressivo, in pratica non ti potevi perdere nulla), e il fatto che il protocollo di posta fosse diverso da quello al quale siamo abituati.  La rete DECnet aveva delle sue specificità. Tanto per dire, all’atto dell’immissione dell’indirizzo email la rete provvedeva instantaneamente alla verifica dell’esistenza del destinatario; qualora non lo trovasse, era impossibile proseguire oltre.

C’era tutto questo, e ovviamente altro ancora. Mancava però ancora una possibilità di questo tipo. Questo: era una cosa nuova, caricare una pagina web aveva di colpo un sapore tutto diverso… cominciavi a sentire il sapore di una vera rivoluzione. 

E tu, ricercatore, borsista, persona che bazzicava istituti scientifici, eri in prima linea. Avevi l’idea di un mondo nuovo che stava arrivando, di cui la gente là fuori non sapeva ancora nulla.

E poi c’era l’aspetto creativo.

Potevi iniziare a creare dei contenuti che sarebbero stati visibili, potenzialmente, in tutto il mondo…

E’ vero che le pagine web che caricavi non avevano niente a che spartire con i siti attuali, farciti di istruzioni AJAX e interattivi in ogni più piccola parte. La pagina web di allora era veramente un ipertesto, con parole (molte) e immagini (poche e piccole, vista la lentezza del trasferimento dei dati).
Così aprivi il computer dell’Istituto (Internet a casa nemmeno a parlarne, appunto: Internet nessuno sapeva cosa fosse, nessuno sapeva ancora che ci fosse), caricavi Mosaic. Sceglievi una pagina (non erano molte: tanto e vero che esistevano dei veri e propri cataloghi dei siti web, anche in forma cartacea) e aspettavi paziente che si caricasse. Appena i dati erano pronti, il sistema faceva il rendering, e per te era comunque una piccola meraviglia.
Tornavi a casa e forse nemmeno nei pensieri più arditi ipotizzavi che di lì a qualche anno avremmo avuto praticamente tutti l’accesso domestico illimitato e permanente al mondo del web. Era già azzardato pensare di poterlo avere a casa. A casa, come veicolo di intrattenimento domestico, c’era la televisione.

Certo c’era il personal computer, ma il veicolo principale per scambiare software erano i dischetti e poi il compact disk. Ogni computer era perciò come una monade, era un universo a sé stante, con poche via di accesso, molto ben definite. Ora non abbiamo idea della quantità di servizi che utilizzano la rete – o meglio, ne abbiamo idea solo quando per qualche motivo ci si trovi fuori rete.

A volte penso che sono fortunato. I miei figli sono già cresciuti nell’era della rete. La vera discontinuità, il punto di svolta, non l’hanno vissuto, in pratica. Avere ricordi di quando la rete non c’era e nello stesso tempo essere immersi nell’era telematica. Non è da tutti.

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Dai programmi alle web app…

Certo che di strada ne è stata fatta. Chi ci poteva pensare, negli anni ’90 in cui il web vero e proprio muoveva i suoi timidi primi passi, quando giù un iperlink da un documento ad un altro, magari localizzato in un diverso punto della rete, poteva sembrare (anzi era) una cosa davvero innovativa. Chi poteva mai ipotizzare che gli stessi programmi – oltre ai dati – si sarebbero spostati “sulla nuvola”, come diciamo oggi?

Eppure di vantaggi ve ne sono tanti, come sottolinea anche un articolo apparso di recente sul Sole 24 Ore. Una suite di office su web come Google Documenti è giunta ormai ad un discreto livello di maturità, tanto che molti compiti “reali” possono essere svolti efficacemente senza altro software che un browser moderno. Indipendentemente dal sistema operativo e dal tipo di computer. Desktop, notebook, netbook, tablet: si può interrompere il lavoro e riprenderlo in ogni momento con un altro dispositivo. La comodità è indubbia. Ed inoltre in questo paradigma è facilissimo implementare soluzione di editing condiviso su web, ed ogni altra ipotesi collaborativa.


A livello speculativo, c’è da porre però attenzione al fatto che andiamo sempre di più verso una dipendenza dal web ormai strutturale e profonda. Fateci caso, un computer che non ha il collegamento ad internet è di fatto – nel sentire comune – un computer che “non funziona” a dovere. La sensazione insomma è che sia poco utile. Quello che prima era visto come un di più ora è percepito come una cosa necessaria.

La sensazione di chi scrive, è che non possa essere altrimenti. Vi sono appunto sistemi pensati per operare “strutturalmente” nel web, come Chrome OS (che non a caso espone in Home Page la scritta Nothing but the web.

Ma pensate a quanto perderemmo, di nostro, se improvvisamente non avessimo accesso ad internet (ok io almeno perderei un bel pò di documenti, varie annotazioni, e più di 30.000 messaggi di posta….). Prima quanto avremmo perso? Praticamente nulla.Allora perché ci muoviamo verso una net-dipendenza così marcata? Forse i vantaggi di un mondo interconnesso sono così marcati, che accettiamo questa relativa insicurezza. O forse si tratta di migrare da una insicurezza ad un’altra: prima la rottura di un disco rigido (backup a parte, procedura virtuosa non da tutti utilizzata…) era una sciagura, ora forse un pò meno…

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