Scrivere senza distrazioni è probabilmente la frase più usata (ed abusata) per il software di scrittura al computer. Visto che il minimalismo va ancora abbastanza di moda, è sempre un lancio elegante ed efficace. Però questa volta direi che l’appellativo risulta abbastanza azzeccato.
iA Writer è la mia attuale opzione per quanto riguarda la scrittura creativa (racconti, poesie), per una serie di ragioni che accennerò in parte, se vorrete seguirmi.
Bisogna dire subito, è multipiattaforma. Esiste per OS X, iOS, Android e — tra pochissimo — anche per Windows. Dunque puoi veramente portare il tuo lavoro dappertutto, qualsiasi computer o tablet o telefonino tu stia portandoti appresso in un dato momento. Puoi iniziare con il MacBook, per dire, poi spostarti sul tablet e quando sei fuori casa, dare una ritoccatina alla tua opera usando lo smartphone.
Nella ricerca di ambienti adeguati di scrittura, ho fatto un viaggio abbastanza articolato, che è partito — tralasciando ora la preistoria — dall’infatuazione per Scrivener (sul quale ho compiuto tutta la lunga opera di revisione del romanzo Il ritorno), per muoversi poi su Ulysses, ed approdare infine a iA Writer. Provato quasi per caso, poi piano piano è maturato l’interesse e direi quasi la passione. Certo il passaggio da Ulysses a iA Writer — in particolare — non è stato facilissimo, perché abbandonare un ottimo software, con delle eccellenti caratteristiche, non è mai facile. Eppure l’esigenza di poter avere accesso alle mie cose anche sui dispositivi mobili Android, alla fine ha prevalso.
In questo, la scelta di Ulysses di passare ad un modello di business che prevede un abbonamento mensile, in luogo dell’acquisto del software, ha dato anche lui una mano, lo devo ammettere. Senza entrare adesso in accurate disanime dei vari modelli per finanziare uno sviluppo di software, direi solo, in questa sede, che non è un modello a cui io sia particolarmente affezionato. Ho già troppi abbonamenti (Netflix, Spotify…) per accollarmene un altro a cuor leggero.
Ed eccoci. Da diversi mesi uso iA Writer sia per la prosa che per le poesie. Certo, c’è da abituarsi al fatto che si deve lavorare in Markdown, che per i più — magari abituati a Word — può essere un attimino spiazzante. Eppure dopo un pochino ti ci abitui, e anzi inizi ad apprezzare il vantaggio indiscutibile di lavorare con file di puro testo, essenzialmente l’unico formato che rimane leggibile in un tempo abbastanza lungo (fatte salve le iscrizioni rupestri).
Il racconto Venti Passi su iA Writer, (a sinistra in formato Markdown, a destra il rendering)
Nel Markdown la formattazione è tenuta al minimo (l’idea è che pensi a quello che devi scrivere e rimandi gli abbellimenti per dopo), ed è integrata nel testo ASCII. Così se parti per la Luna un anno o due e poi torni, non è apri l’ultimo Word e scopri che i tuoi files non sono più leggibili. In linea di principio, un qualsiasi stupido editor di testo, te li presenta in formato leggibile.
Ok, vai. Se devi, vai… Ma hai salvato tutto in Markdown, prima di partire?
La qual cosa, mi piace.
E del resto, anche Ulysses sposava già la stessa filosofia. Avendo già sofferto il cambiamento all’uscita da Scrivener, ora soffro un po’ di meno.
La chiave di tutto — a mio modo di vederere-— è la possibilità di esportare in una ampia serie di formati: per terminare l’ultima parte di lavoro, dove sia necessario. Ad esempio, puoi esportare in formato Word e finire l’ultima revisione lì. Siamo pratici: è assai difficile che un editore — o una piattaforma di autopubblicazione — accolga i tuoi lavori redatti in uno splendido Markdown. Ti chiederanno piuttosto un “bel” file Word, se non magari un PDF.
Ed ecco il trucco.
Tutto il backstage (il 99% del lavoro) lo fai in Markdown, e poi l’ultimo ritocco lo apponi esportando in Word e sistemando quelle due o tre cosette (impaginazione, caratteri, etc…) di cui in fase creativa potevi tranquillamente non occuparti.
iA Writer ha di suo diverse caratteristiche comode ed interessanti (e anche qualcosa in meno di Ulysses), ma è inutile che vi faccia perdere tempo elencandole tutte. Le trovate nella loro pagina web (come è normale che sia).
La cosa che più mi piace, e che mi fa affrontare e superare anche qualche asprezza ancora presente nel software (esempio, una qualche differenza nel rendering del Markdown quando si usi un ambiente OS X rispetto alle applicazioni Android), è però qualcosa di più immateriale, se possibile, del software medesimo.
Ed è l’attitudine. La scelta del focus, se volete. Facciamo sempre questi due esempi, che sono uguali ed opposti, tanto per capire. iA Writer punta ad essere disponibile su ogni piattaforma (no, a parte il VIC 20, che ora ha un segmento di mercato abbastanza ridotto). In soldoni: c’è per OS X, iOS, Android e — ormai ci siamo — per Windows. Ulysses, per parte sua, si indirizza esclusivamente (e/o elitariamente…) al mondo Apple (OS X e iOS).
iA Writer con il suo sbarco su Windows rende — grazie al cielo!— anche il mio Surface 4 un attrezzo adeguato al mio lavoro di scrittore (suona alquanto pomposo, lo so, ma in fondo come bisogna chiamare uno che scrive?). E spazza via i piccoli residui di incertezza che ancora potevo avere, in caso li avessi avuti (forse sì, non è certo).
Solo Apple oppure Apple e resto del mondo? Niente di male o di esecrabile in entrambi i casi, ma è ovvio che tale scelta di fatto si ritaglia una porzione di mercato e specifici utenti, già di per sé. Se io mi trovo bene con il mio mix OS X + Android + Windows (Surface 4, appunto), è ovvio che Ulysses non potrà essere la mia prima opzione. Più articolato è il caso di chi si muove già dentro un ecosistema tutto Apple, in quel caso potrà scegliere solamente in base alle caratteristiche e al modello di business.
Ah, da non dimenticare. Per lavorare ovunque è necessario e sufficiente che il lavoro sia memorizzato sul cloud, come si dice oggi. iA Writer mi permette di appoggiare i files su Dropbox (o Google Drive) in modo di poterci accedere da qualsiasi dispositivo, in qualsiasi momento. E anche di sentirsi un po’ meno preoccupato del crollo randomico di qualche unità a disco, proprio nel momento in cui stai per mettere l’ultima parola sul manoscritto sul quale hai faticato per un congruo numero di mesi.
E’ un progetto attivamente sviluppato, e alcune nuove caratteristiche che stanno per essere implementate, me lo rendono ancora più piacevole.
First alpha of iA Writer Web Collaboration went out. … If you want to try it now, join our Alpha community on Google+ with the link below, then activate the Alpha version following the instructions in the pinned message https://t.co/M7retGMgmd
All’indomani del famoso e discusso KeyNote di Apple, dove sono stati presentati tra le altre cose il nuovo iPhone 6 e gli iWatch, ha iniziato a girare in rete un simpatico e assai impietoso confronto tra le caratteristiche hardware del nuovo melafonino e del Nexus 4, un modello di smartphone Android in commercio già dal 2012.
Nonostante le perplessità che nutro per le novità presentate nel KeyNote, mi sento di dire che questo confronto è misleading, in buona sostanza. Giova ripeterlo: non è nelle caratteristiche hardware che si appoggia chi sceglie (consapevolmente) un prodotto Apple. Non è una novità che per avere l’hardware migliore – a parità di prezzo – di solito è meglio rivolgersi altrove.
Ho scelto l’iPhone non per l’hardware in se stesso: ho scelto l’iPhone – e l’iPad (l’ormai vetusto iPad 2) – per la eccellente integrazione di hardware e software. E per le caratteristiche di iOS. E per il software che ci gira sopra. E per come ci gira sopra (more on this later).
Perché il confronto è fuorviante? Per lo stesso motivo per cui non conta vantare i megapixel di una camera digitale come se da soli facessero la differenza. Facciamo un esempio che fa capire meglio l’errore. Un esempio che ho provato, diciamo, sulla mia pelle. E che potete divertirvi ripetere a casa vostra, come si dice, se disponete del materiale necessario.
Prendiamo il Corriere della Sera. O meglio, la sua app (per Android e iOS). Va bene, voi potreste preferire un altro giornale. Non vi preoccupate, non è questo il punto. Prendiamo dunque l’app del Corriere su due dispositivi diversi: l’iPad 2 e il Nexus 7 2013 (casualmente, quelli che sono in mio possesso).
Facciamo una ulteriore premessa. Doverosa. L’hardware del Nexus è oggettivamente superiore a quello dell’iPad 2. Basterà dire che l’iPad ha un processore Apple A5 1 GHz Dual Core mentre il Nexus incorpora un Qualcomm Snapdragon 600 donwcloccato a 1.5 GHz (quad core). D’altra parte è un modello molto più recente, il Nexus. Notare che incorpora l’ultimissima versione di Android.
Sembrerebbe dunque un confronto impari. Un modello di tablet del 2013 contro un modello del 2011. E intendiamoci: per molte cose in effetti il Nexus è decisamente più responsivo.
Poniamo però che uno acquisti il tablet anche (se non solo) per leggersi il giornale. E qui iniziano i guai.
Facendo i confronti, la lettura del Corriere risulta estremamente più fluida sul vecchio iPad 2 che sul Nexus (provate, provate pure). Intendo, ovviamente, utilizzando l’applicazione ufficiale – aggiornata all’ultima versione – su entrambi i sistemi. Mentre sull’iPad tutte le operazioni di giro pagina, ingrandimento articolo, pinch to zoom sono sorprendentemente fluide, sul Nexus si riscontra subito come la risposta appaia fastidiosamente irregolare e percettibilmente “a scatti”. Di fatto la lettura diventa un processo irritante, per nulla naturale. Tutt’altra cosa sull’iPad. Sull’iPad vecchio, per intenderci.
Ora, questo è un caso particolare, di appena una applicazione.
Non vuol dimostrare nulla.
O forse sì. Una cosa la dimostra. Che la semplice contrapposizione dell’hardware – per qualche motivo che qui non approfondiamo – non spiega tutto.
In breve: chi avesse comprato il Nexus per leggere il giornale, facendo il confronto dell’hardware, avrebbe fatto davvero un pessimo affare.
Ora mi direte: ma l’app su Android non è matura, ma il processore grafico, ma questo e quello… Ma un domani…
Ok, quello che volete. Ma il fatto resta: il Corriere si legge molto molto meglio su un iPad di tre anni fa, che sul Nexus dell’anno scorso. A voi capire perché.
Ma a me dichiarare che questi confronti hardware lasciano – per buona parte – il tempo che trovano.
Non nego che se qualcuno mi regalasse l’iPhone 6 (prendete nota) gli sarei grato per un congruo numero di mesi. Non nego che l’oggetto abbia una certa attrattiva nel mio spazio mentale. Assolutamente. A parte il fatto che i grafici Apple sono bravissimi a presentare i prodotti in modo da sollecitare le tue ghiandole salivari, con queste paginette eleganti (poi copiate da Google e da Amazon, basta che vi fate un giro sulle presentazioni del Kindle o del Nexus 7 per notarlo con chiarezza rocciosa e definitiva).
Non lo posso negare. Non c’è confronto che tenga, ancora. L’iPhone è elegante. E soprattutto, fa girare il software che voglio io (DayOne, sappilo: è quasi tutta colpa tua).
Questo per ribadire la mia vicinanza emotiva alla faccenda iPhone.
Però c’è qualcosa che non mi torna, c’è qualcosa che mi rimane un po’ qui. Insomma, non riesce ad essere digerita bene.
Prima l’iPad mini, quando Steve aveva sostenuto che uno schermo minore di 10’ non aveva senso. Vabbé. E’ un bell’oggetto, d’accordo. Sia pure.
Però una cosa rimaneva. Una certezza, per noi utenti Apple. Il formato del telefono. Non ha senso lo schermo sopra i quattro pollici. Non deve avere senso. Tutta la storia che uno schermo piccolo è più pratico, entra in tasca, lo tieni in mano e con il pollice arrivi dappertutto. Per le altre cose c’è l’iPad, non bisogna confonderci. Il telefono deve essere compatto.
Ok, va bene, ci credo.
E’ sempre il solito problema: le dimensioni contano? E quanto?
Così passi mesi a guardare questi ragazzotti con i padelloni Samsung o gli Xperia della Sony, e trattieni qualche episodico moto di invida, cercando di ragionare, pensando loro in fondo non hanno ancora capito. Certo ogni tanto ti sorprendi a pensare a come sarebbe guardare delle foto su uno schermo più grande, ma poi ti riprendi e capisci. “E’ un inganno, ragiona. Lo schermo dell’iPhone è quello giusto. E’ quello che ti serve.”
Perlomeno hai un punto di certezza, un conforto oggettivo. Gli iPhone sono tutti così. Certo dal cinque in poi si è un poì allungato lo schermo, ma è poca cosa. Una concessione minima, la larghezza è quella. La nostra filosofia è consistente, non ha motivo di cedimento. I padelloni Samsung (oh, così brillanti… e guarda come si vede bene…) sono in fondo una manifestazione di immaturità, di superficialità tecnologica. E’ un problema, dopotutto, di scarsa consapevolezza.
Sì sembrano belli anche a me, quando non ragiono…
Prima o poi, capiranno.
Inoltre, io ho le mie belle app pensate appositamente per questo schermo da 4 pollici. Gli utenti Android sono afflitti dal famoso problema della frammentazione dei dispositivi (ogni utente Apple deve impararlo bene), per cui alla fine una cosa che va bene a tutti (gli schermi) non è realmente ottimizzata per nessuno. Ricordiamocelo.
Questo quadro mentale semi-stabile può andare avanti per mesi. Alla fine sei quasi tranquillo, hai le tue belle convinzioni che tutto sommato tengono. Vacillano ogni tanto, ma tengono. Dopotutto si tratta di pensare differente dalle logiche del mercato. Noi abbiamo una filosofia, un modo di vedere il mondo: non è tutta questione di vendite. Non può esserlo. C’è dell’altro.
Poi arrivano i rumors di un iPhone più grande. Lasciamo stare, sono indiscrezioni, da verificare. Tocca vedere…
Non è a molto tempo fa che risale il mio primo incontro serio con Wattpad, ma si può ben dire che più lo uso e più me ne innamoro. E’ difficile definire esattamente quello che può essere. Intanto – vorrei partire da qui: una eccellente piattaforma per leggere ovunque, e leggere di tutto. Ci sono i grandi classici, tanto per iniziare: ci puoi trovare tanto Pride and Pregiudice di Jane Austen come Ulyssesdi James Joyce, in inglese. Ma non manca una buona collezione di classici, anche in italiano. Certo, proprio perché questi sono testi di dominio pubblico, non scarseggiano certo in rete le modalità con cui si possono scaricare (legalmente) e leggere. Epub, PDF, mobi, formato testo… tutto quello che volete.
Però tra tutte, la lettura attraverso Wattpad mi sembra particolarmente avvincente. Qualcosa che va studiato e compreso, come un nuovo modo di leggere nell’epoca della rete.
Mi spiego.
Quello che mi sembra faccia la differenza, non è tanto le lettura dal sito di Wattpad, attraverso il computer: sempre possibile, beninteso. Si possono ricercare libri interessanti, formarsi una propria libreria, ordinarli, condividerli, consultarli, commentarli. Ma l’interessa vero – a parer mio – scatta quando si fruisce Wattpad attraverso su un tablet o uno smartphone, per mezzo dell’applicazione gratuita (al presente sono supportati Android, iOS, Kindle Fire). Ecco: allora la lettura si trasforma, muta interiormente.
Leggere cessa di essere una occupazione solitaria, per diventare una operazione eminentemente sociale.
Eh sì, perché non solo il testo viene formattato per la lettura agevole sul dispositivo mobile (perfino sullo smartphone non è troppo male, devo dire: anche se non consiglierei la lettura di tutto un libro tramite l’iPhone, per dire), ma diventa possibile commentare puntualmentequello che si legge. Puntualmente, proprio: non soltanto a margine del capitolo (come si può fare anche da web), ma in ogni punto, semplicemente evidenziando una frase del testo e aggiungendo a margine le proprie riflessioni. Leggendo, poi, vengono segnalate a lato le frasi commentate, con anche il numero di interventi.
E’ evidente, che per un libro che abbia un buon numero di commenti, ciò apra a modalità di lettura assolutamente trasversali. Prendiamo un testo famoso come, appunto, Pride and Pregiudice. Anche per chi lo conosca bene, rileggerlo attraverso Wattpad assume una sua particolare interesse. Proprio in virtù delle sue caratteristiche, sui può leggere stando attenti ai commenti e seguendone (almeno) alcuni. Non tutti, certo, perché per un libro di quel genere sono decisamente parecchi: le statistiche sul sito riportano un numero di lettura superiore ai due milioni, un numero di apprezzamenti superiori a diecimila, e più di 2100 commenti (vedi figura).
La lettura di questi testi, conosciuti e straconosciuti, si arricchisce di una sapore social che ne rinnova l’interesse, insomma. In un certo senso, diventano di nuovo testi vivi, che attraverso i commenti e i like si modificano giorno per giorno sotto i nostri occhi. Vengono riportati nell’attualità, vivono il presente.
Insomma, il libro non è più una entità chiusa, ma si muta in qualcosa in perenne divenire, in continua trasformazione. Certo c’è un nucleo “duro” (il testo), ma attorno al quale l’attività è fervente, morbida, multiforme.
Iniziare il primo capitolo di Pride and Pregiudice seguendo i commenti che sono praticamente presenti quasi su ogni frase, è un’avventura che rischia di prendere molto, molto tempo. E non sarebbe esaustiva, perché nuovi commenti vengono sempre aggiunti: ora che guardo, l’ultimo commento in calce al testo (senza considerare quelli relativi a singole frasi) risale ad appena 18 ore fa.
Il libro così appare come un centro di discussione, una sorta di piazza virtuale dove un dato lavoro viene letto e commentato. Tornandoci, ogni volta si possono trovare nuovi spunti, si può intrecciare la propria opinione con una di quelle dei lettori precedenti. Insomma il testo è tutto tranne che morto.
Dunque già per un affamato lettore, Wattpad offre motivi di sicuro interesse.
C’è poi l’altra parte, quella dedicata a chi vuole intervenire più attivamente: a chi vuole scrivere. Infatti il bello è questo: che tutte queste prerogative sono a disposizione di tutti, di chiunque voglia scrivere. E per dire la verità, è proprio questa parte che ho scoperto per prima, e che mi ha interessato di più. Riversare contenuti su Wattpad (profilo mcastel) è stata poi, appena la logica conseguenza.
Ma di questo parleremo in un prossimo post. Intanto potete trovarvi qualcosa da leggere, tra autori vecchi e nuovi, tra grandi classici illustri sconosciuti (ma magari più bravi dei primi), non rimarrete senz’altro a bocca asciutta!
Il mio amico utente iPad da anni, che ha fatto la follia di comprarsi un tablet Nexus 7, non perde occasione per raccontarmi le sue peripezie derivate dalla pratica di un confronto accanito ed intensivo dei due sistemi. L’unica cosa che posso fare, a questo punto (visto che non riesco a non starlo a sentire), per mettere a frutto quanto apprendo via via, è quella di riportare in questa sede alcune delle sue impressioni.
La cosa poi ha un certo margine di inevitabilità, complice la nostra abitudine di vederci la mattina al GruppoLocale BAR (quello dopo la piazzetta, svoltato l’angolo, proprio fronte al parco) per prenderci un buon caffè, prima di dirigersi ai rispettivi uffici (lui lavora in una casa editrice, io – è noto – faccio l’astrofisico). Ora, io l’iPad non me lo porto appresso sempre, lui invece – col fatto che il Nexus è piccolo e compatto – capace che quando meno te lo aspetti lo tira fuori dalla tasca della giacca e inizia a farti vedere (volente o nolente, modello volete vedere le foto del matrimonio?) tutte le mirabolanti caratteristiche, tutte le intriganti specificità. O magari (dipende anche dall’umore e dal tempo atmosferico, se piove è più probabile) a sottolinearne implacabilmente i limiti.
L’altro giorno comunque me ne ha insegnata una nuova. Non vi sono solo i widgets (io già quelli non ce li ho, sull’iPad). C’è un’altra cosa. Le applicazioni sul Nexus possono anche presentare uno specifico comportamento allorquando si lascia – poniamo – il tablet acceso e non utilizzato, tipicamente per la procedura di ricarica. O quando si mette sul dock. Avendocelo.
E’ la funzione DayDream (sogno ad occhi aperti). Ora, guardate, io darei un premio già a chi ha pensato il nome, perché lo trovo evocativo e decisamente poetico. Anche il mio amico è d’accordo, tra l’altro…
DayDream, se ho ben capito, risponde alla domanda spinosa cosa far fare automaticamente al tablet quando non fa niente?
In pratica, laddove l’iPad da inattivo può funzionare al massimo come cornice foto (c’è l’opzione apposita) DayDream estende razionalmente questo concetto a livello delle applicazioni, le quali possono fornire – se gli sviluppatori lo prevedono – un supporto alla specifica funzione per inviare sullo schermo i propri contenuti.
Così mi sono… ehm… il mio amico si è ritrovato la possibilità di usare il Nexus come elegante orologio da tavolo, tanto per iniziare. Ma questo è niente. Applicazioni come Flipboard lo trasformano ipso facto in una finestra spettacolare sulle news e sulla timeline dei propri social network. Ovviamente – capirete bene – ogni sito di notizie ed aggiornamenti, o fotografie di gattini – può fare di DayDream un uso davvero ghiotto. Che poi dipende ovviamente dai proprio gusti. Il mio amico ad esempio spesso lascia DayDream impostato su Appy Geek così (mi racconta) si fa una scorpacciate di notizie tecnologiche senza dover nemmeno premere un pulsante.
Ed eccoci alla terza puntata di questa carrellata di impressioni di un utente iPad che si è trovato tra le mani un Nexus 7. Niente di sistematico e nessun confronto rigoroso, naturalmente, ma soltanto appunti d’utilizzo, considerazioni che vengono ad una mente abituata ad iOS allorquando ci si trova d’improvviso a lavorare con Android 4.4 …
Parliamo stavolta di applicazioni. Cioè, essenzialmente, quello per cui un tablet viene acquistato. E’ vero, è vero quello che sostengono gli affezionati del robottino verde: ormai le applicazioni per Android sono moltissime, un’infinità. Siamo d’accordo.
Però si trascura spesso di menzionare un fatto non proprio trascurabile: la gran parte di queste, allo stato attuale, sono ancora ottimizzate per i telefonini. Ovvero, si possono certamente caricare su un tablet Android, per questo ovviamente non c’è problema. Il problema è un altro, è che che l’applicazione, lungi dallo sfruttare in maniera ottimale lo spazio reso disponibile da un tablet da 7’’ o peggio ancora da 10’’, si troverà semplicemente a “stirarsi” per riempire i pollici aggiuntivi rispetto al telefono. Con la simpatica occorrenza di rendere l’esperienza d’uso piuttosto frustrante. Si perde un po’ il vantaggio di avere un tablet, quando l’effetto è semplicemente quello di un telefono “stirato”.
Chi rinuncerebbe a Facebook sul proprio smartphone? Photo Credit: TheeErin via Compfightcc
Un esempio su tutti, l’applicazione per Facebook. Non c’è niente da fare, il nostro utente abituato a iOS storce un po’ il naso, quando si accorge che è un’App da telefonino, spalmata su sette pollici invece di quattro (o cinque). Certo che funziona, ovvio. Però, perché – lui si chiede – quando clicca su una notifica non si apre una finestrina ma un intero schermo? Perché appunto non è pensata per gli schermi grandi, ecco il punto. Possibile? Una app così usata come quella di Facebook? Il nostro amico è un po’ interdetto, in effetti.
Non è così per iOS, mi dice con una certa enfasi. Le app pensate per iPad sono moltissime. E le app cosiddette “universali” (ovvero per iPhone e iPad) lo sono davvero, nel senso che se istallate su iPhone presentano un certo layout, se istallate su iPad presentano un layout differente, che prende veramente vantaggio dallo spazio aggiuntivo, inserendo nuovi menù o comunque prevedendo modalità visuali non presenti sullo smartphone, riorganizzando i contenuti, offrendo maggiori opzioni, e così via.
Così al nostro amico, il fatto che le applicazioni Android siano moltissime non dice troppo, in realtà. Si deve comunque andare a cercare quelle ottimizzate per tablet, e per lui non è sempre facile scoprirlo (anche se ci sono App… apposta, anche per questo). Sicuramente la situazione cambierà, nel futuro. Però al momento l’effetto telefonino pesa ancora troppo, nel market Android (dice lui).
C’è poi un altro discorso, è che sembra spesso che le App per iOS – quale che ne sia il motivo – appaiono più rifinite della loro controparte per Android. Piccole cose, alle volte, piccoli effetti di cui ci si accorge solo navigando le due app su diversi dispositivi. Però cose che comunque hanno un impatto non trascurabile sull’esperienza d’uso. Il nostro caro amico, dice che se apre Evernote su uno o l’altro dispositivo, ad esempio, la differenza la nota. Se apre Zinio, sul suo vecchio iPad 2 la navigazione delle riviste è comunque percettibilmente più fluida che sul nuovo Nexus.
Dunque se pure è entusiasta di Android e del muovo Nexus per tutta una serie di motivi, il nostro rimane un poco più pensieroso quando gli si accenna all’argomento relativo alla qualità e alla varietà delle applicazioni.
Che dire? Magari si è sbagliato in qualche punto del ragionamento, data la sua scarsa esperienza con Android. Se così fosse, fatemi sapere nei commenti, sarà mia cura informarlo 😉
Continua la serie delle riflessioni estemporanee di un utente iOS alle prese con un tablet Android, il Nexus 7: il nostro, dopo aver scoperto con piacere la multiutenza, ora si trova ad istallare le sue app preferite… seguitelo nei suoi ragionamenti, potrebbe darvi qualche spunto interessante.
E’ completamente diversa la filosofia di gestione delle App, nei due sistemi. Meno male, altrimenti non sarebbe divertente, per il nostro utente avvezzo ad iOS: non potrebbe imparare niente di nuovo! Cominciamo da iOS, che è governata da un paradigma più semplice. L’applicazione istallata trova necessariamente posto sullo schermo del tablet, nell’ambiente di lavoro. Difatti al visuale standard del desktop è quella che comprende l’elenco delle app. Non è contemplata la possibilità che una app istallata non sia in sullo schermo con la sua iconcina, da sola o in qualche cartella.
E’ tutto lì, alla fine il punto sono le app…
Ecco perché disistallare App in iOS è di una semplicità estrema: si elimina semplicemente la relativa icona, cestinandola, e il sistema provvede a togliere di torno la relativa applicazione. Veramente, il massimo della semplicità (innegabilmente, molto pratico).
Tant’é che passando da iOS ad Android all’inizio non ci si trova. Si pensa che basti eliminare l’icona e l’applicazione scompare. No, su Android non è così. Perché Android ha una schermata apposita dove vengono mostrate tutte le App istallate, a prescindere che siano state collocate o meno su uno degli schermi virtuali del tablet. La corrispondenza totale tra icona e app dunque non c’è più: una app può non essere presente in nessun desktop virtuale, ma essere presente e richiamata alla bisogna, tramite il passaggio preliminare alla schermata con la lista delle app. Schermata che appunto su iOS non esiste – o meglio, è il default.
Dunque su Android per eliminare una App si dovrà andare all’interno delle impostazioni, trovare la voce gestione applicazioni, esaminare la lista e trovare quella da eliminare. Finalmente si potrà provvedere a cancellare quella app che non serve più o che poteva servire ma mette quel fastidioso banner pubblicitario per cui arrivederci e grazie…
Anche l’istallazione delle App può seguire traiettorie diverse. E’ ben vero che ognuno dei due sistemi ha il suo specifico market dove selezionare (eventualmente pagare) e poi scaricare le varie App. E’ vero che è possibile accedervi – ovviamente – direttamente dal tablet, per effettuare le varie operazioni necessarie a portare l’app sul proprio dispositivo. Però per Android c’è un canale addizionale. Si può istallare l’app anche da un qualsiasi computer connesso ad Internet, previa autenticazione su Google Play. Da lì, si possono acquistare e indirizzare le app sui propri device Android, precedentemente registrati: se il device selezionato è acceso ed è sotto copertura di rete, la procedura di istallazione partirà automaticamente.
Come dire, posso istallare dal lavoro un software sul Nexus che è rimasto a casa (beato lui), e trovarlo istallato al mio rientro. Questo è allineato al paradigma Google, per cui qualsiasi cosa la devo poter fare dal browser, e segue fedelmente la filosofia Internet-centrica invece che dispositivo-centrica che è (ancora?) prevalente in Apple. In questo sono con Android: devo dire che si rivela di una comodità apprezzabile.
Dopo qualche giorno di utilizzo del mio nuovo Nexus 7, sto iniziando ad avere le idee più chiare sui pregi e difetti (o meglio su cose che mi piacciono e cose che mi piacciono meno – o alle quali non sono abituato). Quello che noto, e che dettaglierò in alcuni post di prossima pubblicazione, in realtà è un mix di cose relative al tablet in se stesso e di istanze più specificamente relative al sistema operativo Android (e segnatamente alla versione 4.4 KitKat).
Il mio termine di confronto è inevitabilmente il mio altro tablet, ovvero l’iPad 2 di Apple, aggiornato all’ultima versione di iOS 7 (lodevole che Apple abbia permesso un aggiornamento all’ultima versione per questo tablet ormai… non proprio nuovissimo).
Ovviamente il confronto non si può basare sulle specifiche hardware: sarebbe ingeneroso prendere un modello attuale e compararlo ad un modello se volete decisamente più costoso ma percettibilmente più antico.
Insomma se ancora siete curiosi, prendete queste osservazioni per quel che sono; riflessioni di un utente iPad 2 che si trova in mano un Nexus 7 e comincia a curiosare per capire le affinità e le differenze.
Andiamo perciò ad incominciare.
Dunque, una cosa che mi piace molto è il sistema di multiutenza, che viene con la versione aggiornata di Android. Lo cito per primo perché è una cosa che mi ha aiutato molto a trovare le motivazioni per l’acquisto (se pure ce ne fosse stato bisogno). Abilitando la multiutenza sul Nexus, diventa realmente possibile utilizzare il tablet in condivisione all’interno di una famiglia: non solo si possono creare profili specifici per diversi utenti (che avranno le loro personalizzazioni, i loro account di Facebook e di Google, i loro punteggi dei giochi, i loro libri, etc…), ma è anche possibile creare account con limitazioni, decidendo quali applicazioni possono girare e quali no. Semplicemente l’utente amministratore, nelle impostazioni, ha la possibilità di decidere quali applicazioni possono essere abilitate per l’utente “limitato” e quali invece no. Scorrendo la lista mi accorgo che non tutte le applicazioni, al momento, supportano l’uso per l’utente con limitazione (Gmail ad esempio, no). In ogni caso non è un gran problema perché si può sempre ovviare creando un utente vero e proprio.
Curiosamente, un utente “normale” non ha la facoltà di vedere quali sono le app istallate dall’amministratore, ad esempio. All’atto dell’abilitazione dell’account, riceve in dotazione il normale corredo di app tipiche di un Nexus “pulito”, e poi può procedere, come l’amministratore, ad istallarne altre (a patto che abbia ovviamente effettuato l’autenticazione su Google). Se si trova ad istallare una app che non è sul device, la procedura sarà la solita e comprenderà lo scaricamento via Internet. Se si trova ad istallare una app che in realtà è già istallata per altri utenti (ma lui non lo sa), l’istallazione sarà ovviamente istantanea perché comporterà in realtà niente di più che l’abilitazione per l’utente di un programma già residente in macchina.
In parole povere, diciamo che io voglia istallare Asphalt 8 sul Nexus. Se nessuno lo ha istallato ci metterò il mio tempo (dopotutto è abbastanza massiccio), se invece l’istallazione è istantanea, vuol dire che era giù sul Nexus, istallato da qualche altro utente.
Dopotutto non è male; in questo modo un utente non si può nemmeno impicciare direttamente delle app istallate da altri; procede soltanto ad istallare la sue. Se non ci sono, si scaricano. Se poi già ci sono, bene, il sistema lo sa e agisce di conseguenza.
Ecco, questo in un iPad non lo si trova proprio. D’accordo che nulla vieta di passarsi di mano l’iPad quando serve. Ma bastano due persone che vogliono accedere all’account Facebook o Gmail per creare una certa inevitabile frizione nell’uso condìviso (chi scrive lo sa: gli è capitato di trovarsi bacheche di Facebook assolutamente incomprensibili, per poi realizzare con disappunto che era stato loggiato fuori dal suo account perché qualcun altro aveva usato l’iPad).
Con un sistema multiutente, tra l’altro, è ovviamente possibile proteggere determinati contenuti, che rimangono prerogativa dell’account principale (mi pare che sia l’unico a poter essere protetto con password, ma per un tablet mi pare sufficiente).
C’è una diversa filosofia, sotto, evidentemente. Per Apple il dispositivo è eminentemente personale. Idealmente uno dovrebbe avere un iPad per casa per ogni persona che vuole usarlo (se il budget familiare lo permette, beninteso). Per Google un dispositivo come il Nexus può essere acquistato espressamente per essere condiviso.
Il che, detto tra noi, mi pare decisamente un’ottima idea.
Ce l’ho da qualche giorno appena. Forse il periodo sufficiente a ragionare sulle impressioni iniziali, ove si è superato il primo approccio ma non si è ancora completamente confidenti con l’uso e con le potenzialità del mezzo. Per chiarire, devo aggiungere che lo scrivente è un possessore di Ipad 2, che usa ancora quotidianamente con profitto (con qualche irritazione dovuta alla lentezza con la quale si caricano ormai talune applicazioni). Questo per far capire il mio termine di riferimento -implicito quanto inevitabile – nel giudizio del nuovo tablet.
La prima cosa che mi ha colpito subito dopo l’unboxing è la dimensione. Ma è veramente piccolo! Poi il rapporto tra gli assi, stretto e lungo. Alquanto differente dalla geometria dell’iPad, al quale sono ormai abituato.
Sicuro, le caratteristiche hardware sono buone. Poi, rispetto all’iPad 2, ormai datato, non c’è molta storia. Ma cosa ci si potrà fare con tablet… così piccolo? La domanda non riesco proprio a non pormela.
Visto che gli istanti di unboxing vanno di moda… ecco il mio 🙂
Perché il Nexus 7? Intanto il prezzo è invitante. Sicuramente più economico di un iPad Air o un iPad mini, in ogni caso (non che quelli non mi facciano gola, intendiamoci). Poi, ecco… la curiosità. Il mio animo geek tanto trascurato che torna a farsi sentire. Da tanto sono ormai nel mondo Apple, eppure volevo vedere a che punto erano arrivati i tablet Android, dopo la mia esperienza sfortunatissima con il Toshiba Folio 100… E per l’esplorazione, niente di meglio di quello sponsorizzato direttamente da Google.Tanto vale, mi dico, andare direttamente nella tana del leone.
Dunque ecco, le dimensioni (…contano? quanto contano? Il dilemma di sempre, in pratica). Primo piccolo motivo di perplessità. Nell’uso però…
…nell’uso però, devo dire, si inizia ad apprezzare un tablet così piccolo. L’altro giorno ho scoperto con piacere che entra bene nella tasca posteriore dei pantaloni, custodia compresa. Niente male (basta ricordarsi di non mettersi seduti senza estrarlo).
Il rapporto lunghezza/larghezza, come dicevo, è piuttosto inusuale, per me. Sarà comodo? Adesso inizio ad abituarmi, e mi sembra abbia qualche vantaggio.
Per il resto? Accenno brevemente, rimandando a prossimi post gli approfondimenti del caso.
Qualcosa ho perso, con rammarico, e qualcosa ho (ri)trovato con piacere.
Prima quello che ho perso.
Ho perso del software a cui sono legato. DayOne per il diario, MomoNote, la possibilità di leggere le riviste Poesia e Tracce. Qui non si può, come ho detto altre volte, ci sono solo per iOS, in questo specifico momento evolutivo dell’universo. Pace.
Quello che ho (ri)trovato.
Ho ritrovato i widget. Ma che bello.Le applicazioni prendono aria, parlano con l’ambiente esterno. Finalmente! Posso mettere sul desktop informazioni di quello che accade dentro le varie app. Posso rendere il tablet interessante non appena si accende lo schermo (notizie, previsioni del tempo… perfino il programma del pomodoro ha un suo widget). Su iOS no, non se ne parla.
Una cosa nuova che ho trovato (in realtà è stata una buona molla all’acquisto) è la possibilità di creare utenti diversi, offerta dalla moderna versione di Android. Non è che garantisca sicurezza e privacy – mi pare non si possa proteggere l’account con password – ma è perfetto quando si condivide il tablet in famiglia, ad esempio, in modo che ognuno può gestire le applicazioni e collegarsi ai suoi account senza disturbare gli altri.
Per il momento mi fermo qui. Che dire? E’ dunque è un mix agrodolce di cose perse e cose ritrovate. E spesso le cose agrodolci sono le più interessanti…
Uno può dire, leggendo questo post: ecco alla fine ci si abitua a tutto. E probabilmente avrebbe una parte di ragione. Anche perché come spesso accade, dopo una certa asserzione viene anche il momento di correggere il tiro. Se dunque a metà novembre scrivevo circa l’eccessivo minimalismo di iOS7, l’ultima versione del sistema operativo mobile di Apple, oggi un po’ a sorpresa dico che mi comincio a trovare abbastanza bene…
Dunque, la lezione potrebbe essere, mai fidarsi dei blog e di chi vi scrive! Il fatto è questo, in ogni caso: comincio ad abituarmi. Inizio a trovare interessante e gradevole lo stile di iOS7, così minimalista e così bianco. Averci a che fare tutti i giorni, sull’iPhone e sull’iPad, sicuramente aiuta. Uno comincia a vedere le cose in maniera diversa. E perfino il meraviglioso stile di iOS6, ora, inizia a sembrarmi un po’… vecchio!
Il mondo digitale e quello fisico vanno ognuno per la sua strada, ormai…
Comunque prima o poi doveva avvenire, a pensarci bene. iOS6 era graficamente delizioso, spumeggiante e quasi barocco, in certe sue rappresentazioni. L’idea centrale era (secondo me): riprodurre il mondo reale nella sua proiezione virtuale, con tutta la precisione e la sontuosità possibile. Così – ad esempio – il blocco note era veramente realizzato a guisa di un blocchettino per appunti, uno di quelli del mondo fisico, per capirci. Con carta gialla e righette e tutto il resto. Dell’applicazione iBook, per la lettura dei libri digitali, abbiamo già parlato. Veramente la cosa che meglio mappava un libro reale dentro il mondo virtuale: il modello fisico era seguito con tenacia e perfezione, con tanto di ombreggiature ai bordi, costina ombrata in mezzo alle pagine. Un gran pezzo di software, dava la pista all’applicazione Kindle e a tutte le altre che ho provato (e non sono poche).
Perché appunto l’idea era quella: il virtuale deve essere una rappresentazione quanto più possibile accurata del mondo reale. La gente si deve trovare a suo agio, nel passaggio al virtuale. Deve trovare qualcosa che le ricordi il più possibile il corrispettivo esistente nel mondo fisico.
L’idea. E appunto quella, quella ora è cambiata. Alla base di iOS7, si capisce dopo un po’ che uno lo usa, è un altro concetto omogeneo e ben definito, direi compatto (magari discutibile nelle implementazioni, al massimo). Il concetto è che non serve più un aggancio al mondo fisico, ormai. Il mondo virtuale ha una sua piena dignità e si può assumere una sua sufficiente frequentazione da parte dei più.
Dunque non servirà più modellare un blocchetto per appunti, in iOS7. Si farà la cosa più semplice possibile, a vantaggio dell’usabilità: schermo bianco, stile piatto. Lo stesso per i libri. La metafora del libro vero era attraente, ma toglieva spazio e dunque in questo nuovo paradigma non aveva più senso. Anche perché lo stesso libro digitale si è svincolato dal suo corrispettivo fisico: niente è più costretto a somigliare ad un oggetto esistente.
Il che a volte spiazza. A me all’inizio non mi garbava perdere questa connessione tra mondo fisico e corrispettivo virtuale, devo dire la verità. Ma poi ti abitui… e anzi ti sembra gradevole. Il fattore abitudine, al di là di tutto, è determinante. Forse il fatto è semplicemente questo, che ci vuole tempo per assimilare una idea, percepire l’unità del concetto dietro la molteplicità delle sue manifestazioni. Così anche alcune scelte che qualche settimana fa mi sembravano sciatte – come quella di sostituire i pulsanti con semplici scritte – ora mi sono diventate gradevoli. E poi capisco anche perché: fa tutto parte della stessa idea di fondo, che sottende le singole scelte grafiche. Perché disegnare un finto pulsante ? Non ha senso nel nuovo concept. Non ci sono più copie finte di oggetti fisici. Dunque una scritta “cliccabile” è sufficiente. Ma questo lo capisco solo dopo. Dopo, quando cerco di rendermi ragione delle mie impressioni di uso.
Così come a mano a mano che le applicazioni di terze parti si aggiornano per iOS7, l’ambiente diventa ancora più omogeneo e coeso. La stessa filosofia è alla base della molteplicità delle sue rappresentazioni, della sue “incarnazioni” nelle varie app. E- bisogna dirlo – viene realizzata in maniera coerente e sufficientemente completa.
Forse ci metto anch’io un pochino a cambiare paradigma. Ma lo sto facendo, lo sto facendo…