Apple come IBM?

Forse sì. Può essere così. Aria di rivoluzione, cantava Franco Battiato molti anni fa. E le rivoluzioni vanno e vengono. Che Apple sia stata un fermento di vera rivoluzione, negli anni passati, è indiscutibile. Che lo sia ancora adesso, forse, non è così certo.

E’ possibile che dopo la dipartita del folle tiranno visionario Steve Jobs, il fermento di rivoluzione si sia sempre più affievolito? Fino magari a spegnersi? Che abbiano vinto definitivamente le logiche di mercato? Che insomma Apple sia diventata una azienda “tranquilla”, volta al mantenimento dello status quo, senza desiderio di rischiare, un po’ come una IBM ben assestata, insomma?

Apple, una rivoluzione ormai al termine?
Un’azienda certo dedita alla produzione di oggetti di alto livello (ad un costo studiatamente esclusivo), ma senza quella spinta innovativa che l’ha resa celebre? E con un orientamento decisamente volto a ritagliare dei margini ben precisi di intervento sulle proprie macchine, per giunta?

A volte si ha come l’impressione che la società funzioni come la Apple, che non voglia lasciarci prendere un cacciavite e guardare all’interno per capire da soli che cosa non va. (Matt Haig, Vita su un pianeta nervoso)

Ci pensano loro se qualcosa non va. Sono bravissimi, ma devi lasciarli fare. Tu, non impicciarti. Se non funziona qualcosa, loro te la cambiano. Alla fine questa cosa è frustrante.

Non so. Quando la rivoluzione si piega alla sua conservazione, contraddicendosi in essenza, di solito iniziano i guai. Aver messo a punto finissime strategie per pompare denaro nelle proprie casse è comprensibile, un po’ meno non usare veramente di questa presunta diversità per innescare un moto di cambiamento, oltre la pura logica di mercato.

Tutto è troppo equilibrato in Apple, insomma. Siate affamati siate folli diceva Steve nel suo più celebre discorso (quello sì, da rileggere). Qui più che fame c’è una moderata soddisfazione, come un po’ un appetito spento. C’è un recinto dorato, fatto (certo) di tante belle cose software e hardware, poco permeabile verso l’esterno, che viene in effetti la tentazione di chiudervisi dentro. 

Ma sbaglieremmo.

Perché c’è un mondo da cambiare, in effetti. Non basterà un brand a darci la sensazione consistente che lo stiamo facendo, non basterà neanche credere di pensare differente. Ma questa, naturalmente, è un’altra questione.

Loading

Ma la filosofia batte la tecnica, ce lo dice iPhone.

Le analisi sempliciotte non mi convincono. La filosofia, l’estetica, non sono morte, schiacciate dalla tecnica. A volte non me ne rendo conto, ma hanno stravinto, invece. Hanno stravinto loro. Perché sono loro che dettano le scelte di alcuni prodotti di successo. Senza saperlo, milioni di persone portano in tasca un oggetto che è fatto proprio come è fatto non per qualche meccanismo di selezione “naturale” che abbia filtrato le scelte imperfette, nossignori. Piuttosto, per la specifica visione del mondo di una singola persona. Per quello che crede, che sogna, che giudica bello, buono. Per i pensatori, i filosofi, le dottrine che lo hanno influenzato. Per la religione che professa.
La filosofia, la fede, l’estetica, battono la tecnica. La tecnica si modella intorno a queste, obbedisce. Ha delle istanze sue, certamente, ma si adegua. Il caso recente più eclatante è probabilmente quello di Steve Jobs e della mancata uscita di iPhone 5 sul mercato, proprio quando era previsto ed atteso praticamente da tutti.

Filosofia UFPR yey!
Quanto deve la mancata uscita di iPhone 5
alle categorie estetiche e filosofiche di una sola persona?

E badiamoci, non è che non è stato sviluppato. E’ stato bloccato, è diverso. Eì arrivato fino in fondo e poi gli è stato detto non va bene. Cos’è che aveva di sbagliato? Non era affidabile nelle telefonate? Non aveva abbastanza memoria, o un processore sufficientemente rapido? No, il punto non è questo. Non è la tecnica, ma l’estetica. Un criterio estetico, funzionale, ha motivato il blocco: avrebbe rotto il minimalismo e l’uniformità della casa di Cupertino. Avrebbe introdotto un principio di frammentazione tanto inviso al fondatore della Apple. 
Non è necessariamente la scelta migliore, da un punto di vista pragmatico. Gli smartphone stanno diventando sempre più terminali internet portatili, sempre più mini tablet, dunque si assottigliano (come permette la tecnica) e si dotano di display più grandi (per un uso del web più simile all’esperienza desktop). Quanto resisterà iPhone? Quali saranno le scelte della nuova dirigenza?
Credo sia interessante anche guardare alla competizione iPhone – Android come allo scontro tra le due filosofie che governano le linee di mercato dei dispositivi ove sono montate. Da una parte la fedeltà ad uno stile, l’uniformità assoluta, imposta e garantita (con il vantaggio della compatibilità a prova di bomba delle applicazioni — semmplice dopotutto, visto che la varietà di hardware praticamente non esiste), dall’altra la massima flessibilità, portabilità (con i suoi vantaggi, come una rosa di scelta di terminali incredibilmente ampia, e i suo limiti, dettati proprio dalla varietà, o se vogliamo dalla frammentazione tanto temuta ed avversata in casa Apple)
Comunque sia, è intrigante riflettere sul fatto che in un mondo che ama penasarsi sempre più disincantato, sono scelte filosofiche e linee di pensiero antichissime, alla fine, a dettare legge su scelte progettuali e  linee di produzione di oggetti diffusissimi e mordernissimi. 
L’iPhone o l’Android che teniamo nella borsa me lo testimoniano, e in un certo senso mi rassicurano: non possiamo ancora fare a meno della filosofia, dell’elaborazione del reale, della ricerca del significato.  Non potremo mai.
C’è un’anima – un sentire, una umanità – senza la quale anche la tecnica non è che vuoto esercizio senza capacità di attrattiva. Grazie al cielo.

Loading

Siate affamati, siate folli…

Così Steve ci ha lasciato, dopo aver combattuto per anni la sua battaglia contro il terribile male. In questi momenti in rete si moltiplicano i commenti e le analisi di ogni tipo. Da chi lo delinea come un geniale comunicatore e un efficiente manager  di sé stesso e della sua azienda, a chi lo ricorda come un maestro di pensiero, quasi come un guru dei tempi moderni. Chi è Steve Jobs, e cosa ci lascia? Sono d’accordo con Licia Troisi (che tra le opposte tendenze, riesce a mio avviso ad essere felicemente equilibrata)  sul fatto che ora, innanzitutto, non pensiamo al venditore, pensiamo all’uomo.
Più esplicito ancora, in questo senso, è il pezzo di Gigio Rancilio su Avvenire. Per quanti i-gadget posso avere in casa, quello che più mi colpisce di quest’uomo è il discorso che tenne a Stanford nel 2005 (visibile anche nel bel post di Antonio Spadaro su cyberteologia.it, che efficacemente mette in evidenza le possibili risonanze tra il discorso di Jobs e l’insegnamento di Ignazio di Loyola). 

Steve Jobs R.I.P.

Sicuramente Jobs è stato un creativo geniale, sicuramente il suo Think Different ci ha aiutati a sentirci “speciali” contornandoci dei suoi prodotti (che comunque funzionano, e spesso anche bene) dimenticandoci forse che sempre di marketing aziendale si tratta, di una azienda con luci ed ombre come molte altre. Coraggiosa e innovativa, sia pure, ma pienamente integrata nel sistema.
Tuttavia, quello che più mi colpisce non è quanto è riuscito a produrre, o cosa è riuscito a venderci, ma cosa ha cercato di trasmettere, soprattutto in quel famoso discorso. Un discorso “scomodo”, perché vero. Perché mette in campo quello che tutti cerchiamo di rimuovere (rovinandoci la vita), ovvero la certezza della morte. Sapere di dover morire (e non voler morire) secondo saggisti come Valerio Albisetti, è esattamente il centro da recuperare per dare senso alla nostra vita. E’ comprensibile: se sai che la vita non dura per sempre, ogni giorno, ogni minuto acquista più valore. Soprattutto, non sovrapponi una menzogna  alla realtà, non ti muovi come se vivessi per sempre ma sapendo che la tua vita su questa terra ha un arco finito.
Così, anche su di un sito non certo sospettabile di propensioni macchistiche, come LinuxJournal, appare un interessante articolo che ripercorre il percorso che ha portato Steve Jobs ad intrecciare la sua vita con la tecnologia degli ultimi anni. A Steve viene riconsciuto in apertura di articolo il titolo di “innovatore tecnologico”; probabilmente anche linux (è l’ipotesi con la quale si chiude il pezzo) sarebbe stato in qualche modo diverso, senza di lui. 
Di converso, non mi provocano nessun particolare entusiasmo, se devo dirlo, le parole piuttosto dure di Richard  Stallman (che probabilmente ha perso una meravigliosa occasione per stare in silenzio). Posso dissentire in qualche misura dalla filosofia Apple, ma di certo mi riconosco sempre meno in talune posizioni estreme che trattengono ancora il gusto troppo forte di qualcosa di (tristemente) ideologico.
Ma ritorniamo ancora al discorso di Stanford.
Così esordisce Jobs “Ricordarsi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita”.  L’invito di Jobs a seguire il proprio cuore, la sua esortazione “dovete trovare quel che amate” è l’invito a guardare dentro di sé per scoprire la propria vocazione, quello a cui siamo stati chiamati, quello che ci dà  entusiasmo e passione, che dà colore alla vita, ai giorni. Assecondare la propria vocazione, “cedere” ad essa, fidarsi dei propri sogni. 
Siate affamati, siate folli per me vuol dire questo, non accontentatevi di niente di meno del cuore.
E’ un lavoro, da riprendere. Adesso più che mai. Grazie, Steve.
Elaborazione di un post originariamente pubblicato su /home/mcastel

Loading