Debian, l’italiano e l’intelligenza (artificiale)

Premetto che non sto per scrivere niente di esagerato sull’intelligenza artificiale, o almeno lo spero. Sono totalmente con Faggin quando avverte che c’è in essa, ben poco di “intelligente”. Sono marchingegni ben studiati, che possono indubbiamente essere utili (e di questo parlerò) ma niente di più (ed è già tantissimo).

E comunque – per una persona come me che ha visto Internet nascere (e arrivare negli istituti di ricerca prima ancora che la gente sapesse che c’era questa grossa cosa nuova), anzi che ha trascorso su questo pianeta molti anni prima che Internet vedesse la luce – osservare queste ultime evoluzioni è qualcosa che colpisce. Veramente stiamo entrando in un’altra epoca. E questo, non tanto perché abbiamo creato qualcosa dotato di una intelligenza propria, perché non assolutamente così (ancora, ascoltare Faggin per convincersi o leggersi il suo libro, Irriducibile). Quanto piuttosto, per la indubbia comodità di un nuovo strumento che diverrà – ci scommetto – sempre più parte della vita quotidiana. Fino ad apparirci indispensabile, se per alcuni non lo è già.

Tutto comincia con la posta (come sovente accade)

Collettivamente, siamo in un periodo di riflessione profonda sui vantaggi e sui problemi dell’intelligenza artificiale. E non potrebbe essere che così, in questa fase. Tra un poco la useremo e basta, dimenticandoci allegramente di tutto il contesto filosofico che ora è invece in primo piano. D’altronde accade sempre così, è successo con i lettori walkman1, con i primi videogiochi, con i telefoni cellulari, con la televisione a colori, praticamente con tutto.

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Installare linux? Microsoft ti spiega come

Non è notizia recente, d’altra parte qui non rincorro le notizie fresche fresche, ci sono siti ben più agguerriti che lo fanno benissimo. A me piace prendere tempo e riflettere, ruminare su alcune cose che hanno un risvolto tecnologico (mai soltanto tecnologico, beninteso).

E una cosa interessante – per chi ha vissuto il tempo delle lotte furibonde tra sistemi operativi, ovvero (soprattutto) tra fanatici di Linux e seguaci ortodossissimi di Windows – è questa alleanza relativamente nuova tra Microsoft e il mondo Open Source. Da tempo ormai, Windows permette di istallare Linux nativamente, con il Windows Subistem for Linux, in modo da creare un ambiente in cui usare applicazioni Windows (anche grafiche) e Linux al medesimo tempo e anche scambiarsi dati tra i due ambienti, con pochissimi problemi.

Come recita la pagina di spiegazione,

il sottosistema Windows per Linux (WSL) è una funzionalità di Windows che consente di eseguire un ambiente Linux nel computer Windows, senza la necessità di una macchina virtuale separata o di un doppio avvio. WSL è progettato per offrire un’esperienza facile e produttiva per gli sviluppatori che vogliono usare sia Windows che Linux contemporaneamente

Che le cose prima non stessero affatto così, beh è nella memoria di molti di noi. Ma per i più giovani possiamo notare come alcuni segnali rimangano a testimonianza di un’epoca ormai (felicemente) tramontata, quella cioè delle opposte e sfegatate tifoserie. Quelle dove – tanto per cambiare – al posto della coesistenza pacifica c’era l’idea di guerra intrapresa per liberare il mondo da questo o quel sistema operativo. L’altro era il male, in pratica. Vi ricorda qualcosa questo atteggiamento? Purtroppo, temo di sì.

Linux o Window (o altro), il vostro computer sarà ormai inutile senza un collegamento a rete…

Meno male che le cose cambiano. A volte, piano piano, cambiano anche in meglio. Ora c’è addirittura una pagina di Microsoft dove si spiega come istallare Linux. Vero, si sconsiglia di sostituire del tutto Windows con Linux con una bare metal installation, ma questo ci può stare: strumenti come la virtualizzazione o appunto il già citato sottosistema Linux permettono di evitare partizionamenti del disco rigido che possono sempre rivelarsi distruttivi, sopratutto se non si prendono le adeguate misure di precauzione.

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Quarant’anni dopo

Cominciò così, per noi. Lo installammo nel nostro IBM con ben 10 MB di hard disk, e a quel tempo la cosa più bella da vedere era in effetti l’orologio, che potevi ridimensionare, e continuava addirittura a segnare i secondi anche quando non in focus…. Multitasking visuale. A quell’epoca, una cosa strabiliante.

Mi piaceva anche colorare le barre di Windows con quelle combinazioni a “pattern”, che erano in realtà opzioni di colori per ovviare alle limitate capacità grafiche del tempo. Se le sceglievi con attenzione, potevano venire fuori dei pattern a diamante che erano decisamente i miei preferiti.

Per chi programmava, poi, le 5 righe di hello world in C per DOS diventarono subito un centinaio con l’hello world per Windows. La maniera di interagire con quel multitasking era veramente complicata, e si basava sulla mutua implementazione della logica che lo permetteva tra Windows e le varie applicazioni. Oggi è interamente gestita da OS, è l’applicazione non deve aggiungere nessuna linea di codice per permettere il multitasking.

Per ovviare alla limitazione dei colori delle barre, si ricorreva ad una strategia di opportuni pattern, che mischiavano più colori insieme.

La scheda grafica era una VGA, 16 colori. Un deciso upgrade rispetto alla precedente CGA, che vantava appena quattro colori (l’odioso magenta, ciano, giallo e … verde, mi pare).

https://www.xda-developers.com/40-years-ago-microsoft-debuted-windows/

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Quel nostro CPC 464…

Niente, non mi ricordo. Non mi ricordo assolutamente come venne scelto. Comunque, fu designato lui, come successore del Texas Ti99/4a: colui che doveva espandere i suoi fasti lanciandosi con ancor più decisione in questo misterioso campo dell’informatica domestica, ancora tutto nuovo. E far dimenticare (sperabilmente) le sue non poche ombre.

C’è da ammettere che fin dall’inizio si presentava come qualcosa di differente. Era un sistema integrato, ovvero aveva tutto con sé: un monitor dedicato, un lettore di cassette incorporato nell’unità tastiera (non c’era un disco rigido dove memorizzare i programmi, si dovevano sempre leggere da nastro o digitare ex novo). Tutto cambiato, insomma. Era un altro mondo. Significava finalmente dire basta ai collegamenti saltellanti con il registratore a cassette, lo stesso peraltro che si usava per ascoltare la musica (i CD o lo streaming non comparivano nemmeno nei sogni dei più arditi): la comodità di avercelo incorporato nel sistema era indubbia. E non solo. Basta anche con il dover piratare il televisore casalingo, sottraendolo alla fruizione domestica: da qui in avanti si poteva stare alla console tutto il tempo che si voleva, perfino durante il telegiornale! Insomma, la tendenza era quella, l’informatica stava prendendo solidità, superava le iniziali timidezze, smetteva di prendere in prestito cose destinate originariamente ad altri usi, si creava uno spazio tutto suo.

Certo, va anche detto che il CPC 464 non presentava alcuna possibilità collegamento ad Internet. Ma era tutto sommato una pecca minore, considerato il fatto, relativamente impattante, che Internet non esisteva affatto.

Qui faccio una pausa e mi interrogo. Quanto è ancora pensabile un tempo senza Internet? Sono pochi anni fa, ma sembra veramente un altro mondo. Come facevamo a fare le cose, chessò, metterci d’accordo su una cena, seguire un cantante, procurarci i biglietti per un concerto, coordinarci per osservare le stelle? Eppure, tutto questo si faceva. Io c’ero (ebbene sì), eppure anche se c’ero quasi fatico a crederci. Immagino dunque la fatica di immaginazione richiesta a chi ancora non c’era!

Comunque, eravamo ad un punto di svolta: addio ai “giochi” su cartuccia del Ti99/4a… titoli “formidabili” come Hunt the Wumpus e Tombstone City si potevano d’altra parte abbandonare senza troppi patemi d’animo… Del resto, per il CPC 464 c’erano ad aspettarci delle sorprese davvero carine, come scoprimmo presto: piccole gemme del calibro di Spindizzy, per dire. Veramente delizioso, non so quanto tempo ci abbiamo passato, io e Flavio, in sala hobby a giocare con quel titolo. Anche adesso una partitella me la farei volentieri, ogni tanto. Lo ricordo ancora con piacere, Spindizzy era proprio un piccolo capolavoro di pulizia ed eleganza. Un gioco fatto come si deve. E non era neanche il solo, come avremmo presto scoperto. Ricordo infatti – tra quelli che acquistammo – anche l’avventura testuale The Hobbit, anche se non mi ci sono mai messo seriamente (Flavio invece ci giocò parecchio).

Dunque, ottimo parco software. Certo il processore di bordo era ancora il diffuso Zilog Z80 che viaggiava alla rispettabile frequenza di 4 Mhz, ma a quei tempi non mi sembrava che ci fosse alcun problema.

Erano tempi di fermento, quelli. Si muovevano i primi passi con i linguaggi di programmazione, perfino diversi dal classico Basic, linguaggio quasi obbligatorio per la programmazione domestica: io avrei ben presto scoperto il Fortran, per il lavoro sulla mia tesi di laurea sull’eccesso ultravioletto nelle galassie ellittiche (ma questo è un’altro discorso).

Mi pare fosse a Monaco di Baviera (in vacanza appresso a papà, che invece lavorava davvero), che scovammo in un negozio una cassetta per caricare sul nostro Amstrad il linguaggio F, cassetta che ci portammo a casa, assai curiosi di imparare e sperimentare. Non ricordo che realizzammo programmi stratosferici in F, ma fu divertente esporsi alla sua logica. Capire che c’è un modo diverso di programmare, rispetto al Basic. Certo, tutte cose che adesso potrebbero far sorridere (dover caricare un linguaggio di programmazione da cassetta non è una cosa molto comoda tra l’altro), ora che siamo abituati a ben altri standard, ad altre procedure.

Erano i tempi, più o meno, in cui papà – astrofisico di mestiere – andava in giro con un dischetto da 3.5 pollici nella borsa, su cui non solo entravano tutti i documenti su cui stava lavorando, ma persino anche il software che li processava, quel WordStar che all’epoca rappresentava lo stato dell’arte in termini di word processor. Si inseriva il dischetto nel computer, si lanciava il software, quindi si caricava il documento di lavoro. E non si salvava nulla sul cloud, no. Il cloud aveva all’epoca un grosso difetto, che ne rendeva assai difficile l’uso: il difetto, come per Internet, era appunto quello di non esistere.

C’entrava tutto un mondo, qui dentro…

A pensarci è veramente strano: le risorse informatiche di cui disponevamo erano veramente risibili, in confronto alla situazione media odierna. Eppure, c’era un senso di novità palpabile, una idea irriducibile di evoluzione in corso: c’era un mondo nuovo che si esprimeva in queste inedite potenzialità tecniche, per cui il computer lentamente passava da oggetto di curiosità o da divertimento per appassionati, ad utensile (diciamo così) di vita quotidiana.

In questo senso i primi personal hanno fatto moltissimo, innanzitutto dal punto di vista culturale. Hanno condotto una parte di persone – tra cui, appunto, quelle che per professione od inclinazione erano già dentro il mondo dei numeri o dell’elaborazione professionale di testi – a considerare gli strumenti informatici e ad abituarsi piano piano ai loro vantaggi. E tutto poi si è propagato, progressivamente.

Ed intanto, proprio in quegli anni, c’erano persone – anche qui da noi – che già sperimentavano il concetto di rete. I tempi erano ormai maturi: un universo crescente di strumenti computazionali sostanzialmente isolati, stava per essere messo in mutua relazione.

Ovvero, stava veramente per cambiare tutto.

Immagine di apertura di Bill Bertram – Opera propria, CC BY-SA 2.5

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Uno stile, come quello di Tim

Spot geniale, con potenti affermazioni da confermare.

Geniale perché sistema Tim Cook nella sua migliore posizione, e rimpiazza la ferocia carismatica leadership del compianto Steve Jobs con una esigente e inimpressionabile (apparentemente) Madre Natura.

Quindi bravissimi a proporre lo stile di Tim, più “coach di una squadra e partecipe con la squadra delle sorti”, che visionario condottiero, non come una deficienza rispetto a Steve, ma come una nuova luce, più forse invested nelle sorti della squadra tutta. Direi: più umana, più collaborativa, meno solitar-geniale.

In questo primo passo, Tim viene riproposto come 2nd in command. E il fatto che abbiano pensato a fare questo nonostante le critiche che non abbia la forza propellente del precedente CEO, è esattamente quello che trovo geniale

Invece di cercare di rispondere a quelle critiche forzando Tim in caratterizzazioni che sarebbero state artificiali, hanno mostrato il vero valore unico che uno stile come quello di Tim può dare alla compagnia Apple.

Le dittature visionarie dei geni funzionano straordinariamente, ma per un tempo limitato, generalizzando. Si può teorizzare che Apple aveva proprio bisogno di un CEO esigente, responsabile ma anche equilibrato, rispettoso, e capace all’ascolto

E comunque: detto questo – ed essendo grato per come hanno “aggiustato” un po’ la percezione di Tim – credo Apple debba innovare un po’ di piu .

Non sta proponendo molto, secondo me.

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Come ti proietto nel futuro

Proseguo idealmente, in questo post, il discorso già avviato con il post precedente, ove si parlava bonariamente delle bufale espresse da taluni pronunciamenti dell’intelligenza artificiale.

Va chiarito in questa sede che l’intento non è appena far vedere che vi sia un certo grado di inaffidabilità in quanto viene fuori da questi moderni oracoli, anche se questo è già importante, se mette nella nostra testa una nota di prudenza. L’intento è mostrare come siamo di fronte ad un prodotto mirabolante, terribilmente utile ed interessante, ma che è in fase di crescita e richiede dunque molta accortezza, nell’uso.

In pratica, tutto potrebbe essere riassunto in un motto, quando usi l’intelligenza artificiale non spegnere quella naturale, che alla fine dice già tutto.

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Nuovi orizzonti e vecchie bufale

Anche l’intelligenza artificiale ha un suo ventaglio di opinioni, evidentemente. Voglio dire che come per le persone, anche per i vari motori di IA, alla fine dipende un po’ a chi chiedi.

Il fatto è questo. Stavo concludendo la stesura degli atti del convegno per la Pace di Teramo, e come accade normalmente in questi casi ho cercato della documentazione aggiuntiva come sostegno di una tesi che stavo sostenendo nell’esposizione.

Invece di rivolgermi direttamente a Google (o ad Ecosia magari), come avrei fatto un tempo, mi è balzato in mente di domandare ai motori di intelligenza artificiale. La questione spicciola era scoprire se sono previste missioni verso Plutone, dopo il successo della New Horizons e le stupende foto di Plutone e di Caronte (la più grande delle sue lune) che ci ha consegnato. Volevo capire, segnatamente, se la documentazione su questa remota zona del Sistema Solare sarebbe rimasta “congelata” per diversi anni – come sospetto e sostengo nel contributo che sto preparando – oppure c’è già qualche documentata strategia di “ritorno a Plutone”. Ammetto di non avere informazioni in questo senso. Niente di meglio che chiedere, in questi casi.

La sonda New Horizons (NASA)

Ho un paio di amici ai quali rivolgermi: uno è il superfamoso chatGPT, l’altro è Bard (l’ultimo arrivato, ma sostenuto nientemeno che da Google). Chiediamo dunque agli amici, e vediamo un po’ cosa viene fuori.

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Quella X nera che “uccise” l’uccellino blu

Non mi piace, devo dirlo. Non mi piace. Twitter è cambiato profondamente, sta cambiando sotto i miei occhi, non è più lui. Forse perfino il nome cambierà. Non so voi, io non ho più molto desiderio di starci, di interagire, di scrivere e rispondere. Il logo – quella X nera – scelto da Musk al posto dell’uccellino blu mi appare respingente. Troppo freddo, troppo tecnologico. Mi fa pensare all’acciaio.

Da qualche giorno, il logo originale dell’uccellino blu è scomparso. Prima dal sito, subito dopo (assai prevedibilmente) dalle app. E via così.

Ciao, caro uccellino blu. Capisco perché vai via, ma sappi che in tanti, ti abbiamo voluto bene…

Twitter ha una lunga storia, ha sorpassato con successo molti momenti duri, ha visto nascere e morire competitori agguerriti: Jaiku, entusiasmante ma a vita breve oppure Qaiku, bellissimo ma fragile. Twitter ha sempre resistito. Siamo andati via in tanti, poi siamo sempre tornati. L’uccellino blu ci aspettava, fiducioso e paziente.

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La missione (quasi) impossibile

Domenica pomeriggio ho visto Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno. Mi sono divertito, ho ammirato la costruzione di un’opera complicatissima, ho goduto in particolare delle scene girate in Italia (Roma e Venezia, con una fotografia splendida). E in due ore e tre quarti circa in un susseguirsi mozzafiato di scene di azione (mirabolanti), ho anche riflettuto.

Sì, perché questo film è spettacolarmente attuale. Attualissima è la percezione acuta di come l’intelligenza artificiale sia la vera cosa che genera ammirazione ed inquietudine, in pari misura. Sorprendente che la sceneggiatura sia stata scritta ormai anni fa, perché – almeno per l’Italia – è una fotografia esatta di un dibattito che sta avvenendo nel momento presente.

Mi viene da pensare all’incontro tra Federico Faggin e Marco Guzzi, nel quale molto si è ragionato sull’intelligenza artificiale (con dei punti di vista che a mio avviso rimarranno come riferimenti fermi in un dibattito che fermenta ogni giorno di più).

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Una mattinata memorabile

Davvero è stata una mattinata memorabile, una splendida occasione, per me, di imparare e di crescere. Una occasione anche, di rapporto (si cresce nei rapporti, mi dico). Che ci faccio io qui? Proprio io?

Si era capito subito. Fin dalle prime investigazioni, dai primi contatti, si era capito. Da quando si era generata l’idea, si era intravista una possibilità di realizzazione. Era stato un percorso lungo e da fare con pazienza. Sondare la disponibilità di Marco Guzzi (filososo, poeta, saggista, ideatore dei gruppi Darsi Pace), iniziare ad esplorare strade per contattare Federico Faggin (fisico, inventore del microprocessore, imprenditore di successo, sostenitore di una nuova teoria della coscienza).

Dobbiamo temere l’intelligenza artificiale? O solo imparare ad usarla bene? Di questo anche, si è parlato…

Il tempo diventava sempre più propizio. L’intelligenza artificiale diventava oggetto di dialogo quotidiano, arrivava sui giornali e in televisione. Tra lodi sperticate e demonizzazioni impaurite, come recuperare un punto di vista ragionevole e fondato? L’occasione di dialogare con Guzzi e Faggin su questo era troppo ghiotta. Era anzi necessaria, da un certo punto di vista. 

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