Stefano non voleva aspettare. Era fatto così, su certe cose era decisamente impaziente. Ok, è vero che Ubuntu esce tutto nuovo (o quasi) una volta ogni sei mesi. Due volte all’anno non è male, tutto sommato, come frequenza. Eppure ogni volta, all’approssimarsi dell’uscita della nuova versione, ricominciava a friggere d’impazienza.
Certo la novità non era poi una vera novità, ormai. Da tempo aveva dischiuso i meravigliosi segreti della virtualizzazione, quell’arte sottile del riprodurre un sistema dentro un altro sistema. Aveva scaricato Virtualbox e lì dentro si divertiva ad istallare tutte le versioni di linux che gli piaceva, incluse le varie versioni preliminari del suo amato Ubuntu. Spesso le istallazioni duravano una settimana o poco più: comprese le caratteristiche, se non lo entusiasmavano, Stefano le buttava via per fare spazio ad altri tentativi, altre novità.
Era proprio una gran cosa; non doveva nemmeno masterizzare i CD, scaricava la versione “iso” dalla rete e la dava in pasto a Virtualbox; dopo qualche minuto aveva tutto pronto, il suo nuovo giocattolo bello e sistemato per l’uso, senza dover influire minimamente sul sistema (tipicamente, negli ultimi tempi, la Ubuntu più recente, con le dovute aggiunte e le impostazioni “ad hoc” operate da Stefano).
Prima era un inferno, invece. A forza di istallare versioni di linux, per provare come si comportavano, aveva ridotto il disco rigido in una serie di fettine piccole piccole, e ogni volta doveva districarsi tra complicati menù per far partire l’una o l’altra. Per non parlare di quando per sbaglio sovrascriveva le impostazioni corrette e non riusciva più a far partire la versione “giusta” di Ubuntu, quella con la quale lavorava normalmente. La virtualizzazione aveva posto fine a questi insidiosi problemi.
Però un aggiornamento “vero” era sempre un’altra cosa. Il sistema che usava tutti i giorni, diventava tutto nuovo. Di colpo, il desktop che passava da Gnome ad Unity, tutte le librerie aggiornate, tante altre cose nuove da studiarsi, con calma.
Il giorno dell’uscita di Natty, la versione 11.04 di Ubuntu, era tornato presto dall’università. Fatto un backup di sicurezza (si sa mai) aveva lanciato subito l’update, indi assorbito con attenzione esagerata – da puro geek – tutte le scritte a video mentre l’aggiornamento veniva portato a termine in una seducente tranquillità.
Però prima ‘ste scritte erano molto più tecniche, si sorprese a pensare. Tipo updating gcc-232.323.23 resolving dependencies for xorg removing old lilo configuration files senza alcuna immagine. Solo linee di testo senza grafica. Potevi capire un botto se stavi attento. Liscio, non troppo attraente, pulito. Però ti faceva anche un bel pò di domande tecniche, dovevi saper cosa scegliere.
Stefano sorrise. Giada, ad esempio, non l’avrebbe istallato mai. Le difficoltà di Giada con i computer gli mettevano tenerezza. Quel senso di bambina spaesata, lo intrigava, gli inspirava tenerezza. Oppure non era solo quello, a volte si sorprendeva a pensarlo. Che strano.
Ora si erano fatti furbi, anche questi qui. Le informazioni tecniche erano più nascoste (ti dovevi cercare i maggiori dettagli cliccando sua una opzione un pò in ombra sul desktop, del tipo “questa la scopri solo se sei abbastanza fissato, se sei una persona normale manco te ne accorgi”). Se non facevi nulla – come era supposto che facessi (tipo Windows, insomma) ti scorrevano davanti una serie di immagini molto catchy (o supposte tali) che ti facevano assaporare le diverse virtù irrinunciabili del sistema che stavi istallando. Cose molto colorate, che possono capire tutti. E non ti chiedeva niente di complicato.
Insomma, anche su linux la tecnica cedeva un pò il passo all’immagine. O perlomeno, la cura nella presentazione del prodotto era molto aumentata. Era diventato un qualcosa per la gente comune, non solo per quella con il pallino della tecnologia, che ricompilano il kernel i giorni pari e quelli dispari scrivono applicazioni per Android.
Ubuntu 11.04 con qualche applicazione aperta…
Era quasi arrivato al momento fatidico. Sistema istallato, ci vuole un reboot e vai, vediamo subito il nuovo sistema.
Il suono del telefono lo fece sobbalzare mentre era fisso davanti al monitor, quasi con il fiato sospeso.
“Stefano, ciao. Ma sei ancora a casa? Non ci dovevamo vedere alle sei?” la voce di Luisa era gentile come al solito, ma tradiva un pò di perplessità.
Per tutti i virus di Windows, si era completamente scordato!
“Oh sì scusa è vero… arrivo subito. Stavo aggiornando il computer e il tempo è volato…” disse Stefano
“Ci avrei scommesso…” replicò all’altro capo del filo una voce in bilico tra la paziente comprensione e un moderato e ragionevole sconforto.
“No, ma arrivo, arrivo” si affrettò ad aggiungere Stefano.
“Ok ti aspetto. Dài che poi ho detto a Livia e Angelo che ci saremmo visti alla gelateria.”
“Sì tra poco sono lì, tranquilla. Un bacio”. Ora, se questo si sbrigasse, non posso uscire senza vedere almeno se funziona… dài fai questo reboot… spicciati. Stefano prese le chiavi, il portafoglio e il giaccone. Ripassò vicino al computer. Ecco, finalmente è pronto. Faccio il login. Ah ah funziona; ma che bello il nuovo sfondo. E queste grandi icone sulla parte sinistra. Curioso, devo capire se mi piace o se migrare su Gnome 3. Beh fammi andare sennò Luisa stavolta mi spella vivo.
Spense il PC a malincuore.
Se non torno troppo tardi un pò ci gioco stasera stessa, però. Pensò Stefano chiudendosi la porta alle spalle. Ma Livia, poi… ma chi è?
Perfetto, perfetto (potremmo dire)… Ho Ubuntu sul desktop, nella versione 9.10 con tutti i bravi aggiornamenti; ho un MacBook con il suo bello Snow Leopard (che devo dire, funziona bene anche se ogni tanto combatto con le sue impostazioni “filosofiche”… tipo il tasto rosso che non chiude l’applicazione ma solo le sue finestre…). Più o meno una configuazione che si dimostra valida per lavorare e produrre.
Purtuttavia… c’è qualcosa che manca, soprattutto se guardo agli anni indietro. Quelle ore passate ad istallare una data distribuzione linux per provare com’è, magari lavorarci qualche giorno, qualche settimana… e poi sovente passare ad installarne una diversa (!), solo perchè da test o da qualche lettura, risulta lavorare meglio con il dato hardware: certo, se vogliamo, anche una gran perdita di tempo, con pochi risultati concreti. Però anche un viaggio affascinante nel software e nella tecnologia dei moderni sistemi operativi, che ora un pò mi manca.
C’è tuttavia un modo per “viaggiare sicuri”, mantenendo le impostazioni che si dimostrano valide per il lavoro “vero e proprio”: la virtualizzazione! Calma calma… ho capito cosa volete dirmi: certo non sono io a scoprirlo, semmai ci sono arrivato solo da poco, forse anche per un poco di scetticismo.
Scetticismo forse immotivato, visto che istallare Virtualbox su Ubuntu e sul Mac è stato un gioco da ragazzi. Ed è stato emozionante provare una istallazione di Mandriva 2010 dentro un disco virtuale, e vedere che andava tranquillamente a buon fine! Poi massimizzando lo schermo, ecco che uno quasi si scorda che sta usando un software di virtualizzazione… ed è libero di fare tutte le prove che vuole, senza il problema di fare “danni”…!
Va da sè che la cosa è troppo simpatica, e invita a continuare (tempo permettendo); come non fare un giretto, allora, sulla mitica openSuse (con Mandrake/Mandriva, uno dei miei primi linux), magari per mettere il naso sulle differenze di implementazione dell’ambiente desktop KDE nella versione 4.x (e ce ne sono parecchie, sissignori…!) ? 🙂