Quel nostro CPC 464…

Niente, non mi ricordo. Non mi ricordo assolutamente come venne scelto. Comunque, fu designato lui, come successore del Texas Ti99/4a: colui che doveva espandere i suoi fasti lanciandosi con ancor più decisione in questo misterioso campo dell’informatica domestica, ancora tutto nuovo. E far dimenticare (sperabilmente) le sue non poche ombre.

C’è da ammettere che fin dall’inizio si presentava come qualcosa di differente. Era un sistema integrato, ovvero aveva tutto con sé: un monitor dedicato, un lettore di cassette incorporato nell’unità tastiera (non c’era un disco rigido dove memorizzare i programmi, si dovevano sempre leggere da nastro o digitare ex novo). Tutto cambiato, insomma. Era un altro mondo. Significava finalmente dire basta ai collegamenti saltellanti con il registratore a cassette, lo stesso peraltro che si usava per ascoltare la musica (i CD o lo streaming non comparivano nemmeno nei sogni dei più arditi): la comodità di avercelo incorporato nel sistema era indubbia. E non solo. Basta anche con il dover piratare il televisore casalingo, sottraendolo alla fruizione domestica: da qui in avanti si poteva stare alla console tutto il tempo che si voleva, perfino durante il telegiornale! Insomma, la tendenza era quella, l’informatica stava prendendo solidità, superava le iniziali timidezze, smetteva di prendere in prestito cose destinate originariamente ad altri usi, si creava uno spazio tutto suo.

Certo, va anche detto che il CPC 464 non presentava alcuna possibilità collegamento ad Internet. Ma era tutto sommato una pecca minore, considerato il fatto, relativamente impattante, che Internet non esisteva affatto.

Qui faccio una pausa e mi interrogo. Quanto è ancora pensabile un tempo senza Internet? Sono pochi anni fa, ma sembra veramente un altro mondo. Come facevamo a fare le cose, chessò, metterci d’accordo su una cena, seguire un cantante, procurarci i biglietti per un concerto, coordinarci per osservare le stelle? Eppure, tutto questo si faceva. Io c’ero (ebbene sì), eppure anche se c’ero quasi fatico a crederci. Immagino dunque la fatica di immaginazione richiesta a chi ancora non c’era!

Comunque, eravamo ad un punto di svolta: addio ai “giochi” su cartuccia del Ti99/4a… titoli “formidabili” come Hunt the Wumpus e Tombstone City si potevano d’altra parte abbandonare senza troppi patemi d’animo… Del resto, per il CPC 464 c’erano ad aspettarci delle sorprese davvero carine, come scoprimmo presto: piccole gemme del calibro di Spindizzy, per dire. Veramente delizioso, non so quanto tempo ci abbiamo passato, io e Flavio, in sala hobby a giocare con quel titolo. Anche adesso una partitella me la farei volentieri, ogni tanto. Lo ricordo ancora con piacere, Spindizzy era proprio un piccolo capolavoro di pulizia ed eleganza. Un gioco fatto come si deve. E non era neanche il solo, come avremmo presto scoperto. Ricordo infatti – tra quelli che acquistammo – anche l’avventura testuale The Hobbit, anche se non mi ci sono mai messo seriamente (Flavio invece ci giocò parecchio).

Dunque, ottimo parco software. Certo il processore di bordo era ancora il diffuso Zilog Z80 che viaggiava alla rispettabile frequenza di 4 Mhz, ma a quei tempi non mi sembrava che ci fosse alcun problema.

Erano tempi di fermento, quelli. Si muovevano i primi passi con i linguaggi di programmazione, perfino diversi dal classico Basic, linguaggio quasi obbligatorio per la programmazione domestica: io avrei ben presto scoperto il Fortran, per il lavoro sulla mia tesi di laurea sull’eccesso ultravioletto nelle galassie ellittiche (ma questo è un’altro discorso).

Mi pare fosse a Monaco di Baviera (in vacanza appresso a papà, che invece lavorava davvero), che scovammo in un negozio una cassetta per caricare sul nostro Amstrad il linguaggio F, cassetta che ci portammo a casa, assai curiosi di imparare e sperimentare. Non ricordo che realizzammo programmi stratosferici in F, ma fu divertente esporsi alla sua logica. Capire che c’è un modo diverso di programmare, rispetto al Basic. Certo, tutte cose che adesso potrebbero far sorridere (dover caricare un linguaggio di programmazione da cassetta non è una cosa molto comoda tra l’altro), ora che siamo abituati a ben altri standard, ad altre procedure.

Erano i tempi, più o meno, in cui papà – astrofisico di mestiere – andava in giro con un dischetto da 3.5 pollici nella borsa, su cui non solo entravano tutti i documenti su cui stava lavorando, ma persino anche il software che li processava, quel WordStar che all’epoca rappresentava lo stato dell’arte in termini di word processor. Si inseriva il dischetto nel computer, si lanciava il software, quindi si caricava il documento di lavoro. E non si salvava nulla sul cloud, no. Il cloud aveva all’epoca un grosso difetto, che ne rendeva assai difficile l’uso: il difetto, come per Internet, era appunto quello di non esistere.

C’entrava tutto un mondo, qui dentro…

A pensarci è veramente strano: le risorse informatiche di cui disponevamo erano veramente risibili, in confronto alla situazione media odierna. Eppure, c’era un senso di novità palpabile, una idea irriducibile di evoluzione in corso: c’era un mondo nuovo che si esprimeva in queste inedite potenzialità tecniche, per cui il computer lentamente passava da oggetto di curiosità o da divertimento per appassionati, ad utensile (diciamo così) di vita quotidiana.

In questo senso i primi personal hanno fatto moltissimo, innanzitutto dal punto di vista culturale. Hanno condotto una parte di persone – tra cui, appunto, quelle che per professione od inclinazione erano già dentro il mondo dei numeri o dell’elaborazione professionale di testi – a considerare gli strumenti informatici e ad abituarsi piano piano ai loro vantaggi. E tutto poi si è propagato, progressivamente.

Ed intanto, proprio in quegli anni, c’erano persone – anche qui da noi – che già sperimentavano il concetto di rete. I tempi erano ormai maturi: un universo crescente di strumenti computazionali sostanzialmente isolati, stava per essere messo in mutua relazione.

Ovvero, stava veramente per cambiare tutto.

Immagine di apertura di Bill Bertram – Opera propria, CC BY-SA 2.5

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Giocando a Monopoly…

[English version here] Finalmente, dopo diversi tentativi assai frustranti, stasera riesco a interagire con i server di Monopoly City Street con la velocità sufficiente per poter veramente giocare (a proposito, sono nel gioco con il nome utente marcolinux, in omaggio ad uno tra i miei sistemi operativi preferiti). Devo dire che, pur nella sua semplicità, almeno al momento, un pò di interesse questa curiosa versione online di Monopoly la può dare… il fatto più intrigante è poter giocare su uno scenario virtuale grande quanto.. il mondo, nè più nè meno. Appoggiarsi a Google Maps è stata una bella pensata senz’altro.

Se dal punto di vista tecnico l’idea di base, rendere “giocabili” le mappe di Google, è carina e sicuramente degna di essere stata sviluppata, bisogna dire che dal punto di vista organizzativo, il “lancio” è avvenuto a mio avviso con una modalità piuttosto approssimativa, sottostimando di parecchio l’interesse potenziale del gioco, o almeno l’effetto “novità”, con la conseguenza di avere per molte molte ore server quasi “sdraiati” e molti giocatori insoddisfatti. Meglio sarebbe stato, forse, gestire una crescita “regolata” del traffico, magari con un meccanismo “ad inviti”: purtroppo in questo caso non sarebbe nemmeno questo risultato soddisfacente, poichè i primi a giocare avrebbero avuto indubbi vantaggi sui giocatori entrati in un secondo momento (maggior numero di strade da poter scegliere).

Ora comunque la situazione “anomala” della partenza, con chi riusciva a giocare e chi no, ha comunque creato un gran numero di richieste per una “ripartenza”, che riazzerasse tutte le situazioni di gioco. Capite bene che c’è chi è contento e chi non lo è affatto… Personalmente, al di là dell’interesse o meno del gioco, mi intriga osservare lo svilupparsi del progetto, e più ancora l’intelaiatura “sociale” che si è già – in un tempo davvero brevissimo, se ci pensate! – sviluppata intorno (gruppi di discussione, social network, etc…).

Va beh, per ora me ne vado a dormire con le mie quattordici strade comprate, alcune a Roma (Piazza S. Agostino è stato il mio primo acquisto, tuttora tra le mie proprietà), altre a Ravenna (per puro caso, ne ho trovate ancora tante da comprare là). Certo sarà piuttosto semplice, nella dinamica di gioco… Però, come dice mio figlio Simone, “a me emoziona perchè quando compro una strada, allora ce l’ho solo io in tutto il mondo…!” Al di là di tutte le possibile considerazioni, come dargli torto…? 😉

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