E improvvisamente succede. Tutta la musica che pazientemente ti sei messo da parte negli anni, tutto d’un tratto è come se non ci fosse. Eh sì, perché se ti abboni ad un servizio come Spotify o Rdio (che è quello che io preferisco) improvvisamente è come se tu avessi appena una pozzanghera, un laghetto, di fronte all’oceano di dischi che ti puoi ascoltare.
Eccoli lì tutti i dischi, hai davvero un archivio sterminato da sentire. Quando realizzi che tutti i dischi che hai comprato, potevi non comprarli, se solo avessi avuto accesso a queste risorse un po’ prima. Lo so, lo so, è vero. Tecnicamente c’è ancora una bella differenza. Questi dischi sono tuoi, mentre l’acesso al mare magnum tipicamente ti costa qualcosa. Che poi sono circa 5 euro al mese, oppure il doppio se vuoi l’accesso anche da tablet e smartphone. Spotify a dire il vero permette anche un utilizzo gratuito, ma è fastidiosamente interrotto da spot pubblicitari e vi sono altre limitazioni, per cui di solito ci si stanca presto. Almeno, io mi stanco subito.
Dopo un po’ di prove e di oscillazioni tra Spotify e il meno noto ma non meno valido Rdio, ho scelto – come qualcun altro – di dare i miei soldi al secondo. E vi dico perché, in qualche punto.
L’interfaccia. Quella di Rdio è più chiara e pulita di quella di Spotify, la trovo più sobria e piacevole. Certo, questione di gusti.
Il web. Rdio funziona benissimo anche dal browser. Spotify manco se lo sogna.
I dischi. I dischi, i dischi!! Io sono cresciuto collezionando dischi in vinile, musicassette, poi CD, poi collezioni di mp3. Ma ho profondamente impressa nei cromosomi la “struttura” logica del disco. Un disco è un lavoro completo, organico, indicativo di una certa epoca e di un certo percorso di maturazione artistica di chi lo ha realizzato (ecco perché non mi entusiasmano le antologie, di solito). Ora tu, caro Spotify, che mi combini? Voglio aggiungere un disco (una unità organica completa e compiuta, ribadisco) alla mia antologia. E tu che fai? Me lo fai aggiungere ad una playlist? Ma siamo impazziti? Io voglio aggiungere il disco, in quanto tale. Su Rdio posso aggiungere il disco alla mia collezione. Il disco. Proprio lui. Senza ingrossare una generica playlist. E questo è molto, per uno come me.
Ci sono i Pink Floyd su Rdio. Non ci sono i Pink Floyd su Spotify. Io amo i Pink Floyd.
Altre minuzie… con Rdio puoi usare una device come telecomando per pilotare l’altra. Puoi usare l’iPad per pilotare i brani che ascolti sul desktop, per esempio. Simpatico ed ingegnoso.
Qualità. Questo prendetelo cum grano salis, ma a me pare che lo streaming su Rdio sia più limpido rispetto all’altro. Ma, non garantisco. Magari mi sbaglio.
Certo c’è il fatto che ora tutti sono su Spotify, e l’aspetto social è molto più evidente colà. Quindi ecco, mi dispiace per i miei amici in Facebook, non potrò vedere cosa ascoltano. Ma io mi trovo meglio qui.
In ogni caso, uno o l’altro (o qualcun altro ancora) è evidente che siamo sulla soglia di un altro modo di ascoltare la musica. E ti cambiano i paradigmi. Ora invece che ascoltare e riascoltare – ad esempio – le sonate per pianoforte di Mozart da un solo interprete, ecco che sbalordisco di fronte alle scelte che mi trovo davanti. Posso ascoltarle varie volte cambiando sempre interprete. Assimilando le differenze, le affinità.
Una cosa abbastanza inconcepibile fino a poco tempo fa.
Mio figlio Andrea dice che ormai non ho speranza, sono caduto nella rete di attrazione di Apple. iMac, MacBook, iPad e (arrivato appena ieri) iPhone (lo so, avevo detto che ero contrario) … Insomma ce n’è di che per farmi riguardare dai più come un fanatico della casa di Cupertino. Con tutte le più disparate valutazioni che se ne possono trarre.
Però ogni medaglia ha l’altra faccia. E l’altra faccia ha una bella G stampata sopra. Eh sì, sono un fan di molti prodotti Google (anche di alcuni tristemente scomparsi, come ad esempio Google Wave… troppo innovativo per il suo tempo, forse). Da fan di Google, ho atteso con interesse il debutto di Play Music. La promessa di poter mandare sulla nuvola tutta la mia collezione musicale in modo da poterla ascoltare in streaming da qualsiasi dispositivo, mi pareva assai allettante. Se aggiungiamo, in maniera gratutita, ecco che la cosa acquista una sua specifica rilevanza.
L’album in basso a destra, ad esempio, è pura arte… 🙂
Allora il primo giorno di apertura, mi sono segnato.
Con un po’ di pazienza ho poi migrato i miei 3000+ brani musicali sui server di Google. Così ho cominciato a giocare un po’ con l’interfaccia. Devo dire che sono compiaciuto. Google è riuscita a realizzare un player musicale che si gestisce da dentro il browser (come tutto ciò che fa Google). E ci è riuscita piuttosto bene. L’aspetto è semplice e pulito, l’importazione dei brani da iTunes è piuttosto buona: vengono caricate anche le playlist e perfino il numero di ascolti già effettuati. La semplicità fa sì che ascoltare musica attraverso Google Play sia semplice e piacevole, da computer. Ci sono anche playlist automatiche (peccato non vi siano – ancora – le smart playlist, playlist dinamiche che si aggiornano quando cambiano i brani che soddisfano gli assegnati criteri di selezione). Certo non c’è la spettacolare vista Cover Flow di iTunes… ops, non c’è più nemmeno dentro iTunes, con l’ultimo aggiornamento è tristemente sparita (decisione che da molti non è stata considerata esattamente una ottima mossa).
Dunque ottimo e comodo. Da non trascurare, esiste un ottimo store interno. Niente male, nemmeno qui. I prezzi sono leggermente più bassi di quelli di altri classici negozi di musica digitale. Poi “ovviamente” gli acquisti sono aggiunti automaticamente ai propri brani sulla nuvola, ed anzi i brani acquistati su Play non vengono conteggiati per quanto riguarda il limite di 20000 brani.
Ma ora ecco, vengo alla cosa davvero interessante: mi sono accorto che l’uso di Google Play mi sta portando ad un sottile ma percepibile cambio di paradigma. Qualcosa che riguarda l’acquisto e la fruizione della musica stessa. Mi spiego, mettiamo che io voglia acquistare il nuovo lavoro dei Grisembergs Revival. A seconda dell’era tecnologica corrente (ne ho vissute un po’, ehm) avrei a disposizione diversi moduli (trascuro le opzioni piratesche a tutti note, anche per non farmi chiudere il blog…)
Modulo A: vado a cercare in un negozio di dischi il vinile o la musicassetta o (in tempi più moderni) il CD.
nota: il modulo A è spesso iterativo: se non trovo il disco in un negozio, provo con un altro, un altro… (molti molti anni fa, ricordo che la ricerca del primo di Angelo Branduardi durò a lungo e coinvolse diversi negozi di Roma, ed anzi si spinse fino ai Castelli Romani).
Il modulo A è anche intrinsecamente di tipo pre-Internet; c’è il caso che molti lettori non ne abbiano proprio esperienza
Modulo B: compro il CD in un negozio online e aspetto che arrivi
nota: qui siamo – ovviamente – in epoca Internet, eventualmente pionieristico. Quando ancora Internet non lo conosceva nessuno tranne che pochi che al lavoro avevano a disposizione questa novità (tipo gli astronomi, tipo me), ricordo che uno dei primi siti commerciali fu CDNow, probabilmente molti tra i più giovani non ne avranno mai sentito parlare…
Modulo C: compro la musica del disco in formato digitale (da iTunes, Amazon, etc…). Scarico i files e me li ascolto. Il tempo di attesa è in pratica pari allo scaricamento.
Modulo D: acquisto la musica (esempio, Play Music, o anche Amazon MP3) e la ascolto subito, in streaming Internet. Prima ancora di scaricarla. Anzi, c’è il caso che non la scarichi subito. Anzi, c’è il caso che non la scarichi proprio.
Ecco in pratica mi sono accorto dopo un po’ che con Google Play stavo iniziando ad usare il Modulo D.
Ma non è questo il punto. Gli è gli altri cominciavano a sembrarmi vecchi. Scaricare la musica mi sembra vecchio, come prima mi sembrava vecchio andare a comprare un CD. Mi sembra una dilazione inaccettabile tra l’acquisto e l’ascolto. Facciamo il caso di un acquisto come le nove sinfonie di Beethoven in una botta sola (a questo prezzo, perché no…). Non è che mi va di scaricare tutti i files. Preferisco ascoltare da subito. Scaricherò quando dovrò portare i brani su un dispositivo non connesso ad Internet (circostanza che che col passare del tempo si fa sempre più elusiva)
Ora quello che compro è immateriale due volte. Non solo non è su un supporto fisico (primo livello di astrazione) essendo costituito da files. Ma i files non sono nemmeno sul mio computer (secondo livello di astrazione). In pratica, quello che sta succedendo con sistemi simili a Play Music, è che compro il diritto di riprodurre della musica. Che fisicamente dovrebbe risiedere in uno dei più di novecentomila server di Google. E che potrebbe rimanere sempre lì, per l’uso che ne dovrò fare.
Stavo aspettando con una certa curiosità il debutto di Google Music in Italia. Mi aveva attirato l’idea di spostare la mia collezione musicale sulla nuvola, come si dice oggi. I vantaggi sono tanti, e spaziano dall’avere un backup di una cosa che comunque può essere costata molti soldi (sì, sono uno di quelli che ancora la musica la compra…), alla possibilità di poter accedere alla propria collezione in streaming anche con uno smartphone o un tablet.
Tra iTunes Match e Amazon Cloud Player non ci avevo messo molto a scegliere il secondo. Intanto, pienamente compatibile con il mio Android Sony-Ericsson Xperia Ray. Avevo provato qualche tempo fa (un pomeriggio che stavo aspettando la mia bimba dall’uscita di palestra) e riesco a fare streaming di brani in maniera eccellente anche tramite rete cellulare, in assenza di wifi. Inoltre il client si comporta egregiamente con il mio relativamente modesto smartphone. Dunque stavo valutando di abbonarmi, spendere qui 25 dollari l’anno per avere una capienza di immagazzinamento di 250.000 brani. Per lo stesso prezzo iTunes Match mi permette di caricare 10 volte meno brani (25.000 sono sempre tanti, lo so). E poi addio compatibilità Android, ovviamente…
La propria musica sempre con sé: dalla nuvola ad ogni device…
Poi per caso quando quasi mi sono deciso, leggo che sta per aprire Google Music, che promette di caricare sul webben 20.000 brani senza dover pagare alcunché. Io ne ho in digitale poco più di 3.000, al momento. Allora aspetto: non pago niente, e mi va bene.
Il giorno del debutto in Italia è fissato per oggi, 13 novembre. E in effetti ieri sera, appena passata la mezzanotte, il sito di Google Music era già pienamente operativo: scaricare il client per Mac e metterlo al lavoro per cominciare ad importare i files è stata questione di un momento. L’interfaccia web inoltre è gradevole e pulita (stile Google), poi vedo che si possono anche editare i metadati, all’occorrenza. Sull’affidabilità della procedura di importazione non posso ancora pronunciarmi: al momento sono al 714 brano in caricamento di 3.013 rilevati.
Il client – almeno quello per Mac – permette di scegliere la locazione della libreria musicale, di impostare una velocità massima di caricamento, di includere i podcast, di selezionare una playlist o importare tutto (ci vuole un po’), di impostare il caricamento automatico di nuovi brani aggiunti a iTunes.
Se si va nel sito, si possono ovviamente comprare album, oltre a disporre ovviamente di quelli caricati dalla propria libreria. Come da paradigma Google, si deve poter far tutto dal browser, e così è. Consultare la collezione, suonare album, impostare playlist. Una cosa, ho registrato dei problemi con Safari, non so quanto dipendenti dalla mia configurazione. Con Chrome, naturalmente, tutto ok. Speravo in prezzi scontati per il lancio del servizio, ma ad una rapida occhiata non è esattamente così. Anche se un po’ di convenienza c’è: i nuovi album pop/rock sono listati a 8.99 Euro, contro le 9.99 di Amazon MP3 e di iTunes.
Comunque va bene. Un servizio così, con 20.000 brani gratis da caricare e ascoltare ovunque, con ampia fruibilità sui più device (come da tradizione Google) non è affatto male.
YouTube Symphony Orchestra: la prima orchestra online del mondo: “Il nuovo, ambizioso progetto di YouTube apre la community video al mondo della musica classica e lo fa con un’iniziativa senza precedenti, che prevede la creazione della prima orchestra online del mondo.”
Da appassionato di musica classica, leggo con un innegabile interesse questo per me inaspettato annuncio di una sezione “classica” del gettonatissimo YouTube. A botta calda, direi che sì, mi piace questo tentativo di allargare la prospettiva su qualcosa di particolare per un sito la cui parte musicale si appoggia- per ora – molto sui classici “video”.
Apprendo anche leggendo il post su Google Italia Blog che è stata composta nientemeno che la prima composizione per Youtube: per non parlare della neonata YouTube Symphony Orchestra (non è uno scherzo, basta guardare i partner eccellenti di cui si può già fregiare!).
Che dire, speriamo che davvero ne provengano note interessanti… e chissà che la diffusione della classica non ne possa in qualche modo beneficiare… 🙂
C’e’ tutto un mondo intorno (direbbero i Mattia Bazar)… intendo però, in questa sede, intorno a Firefox! Credo sia la vera forza di questo browser: la miriade di mattoncini, piccoli e meno piccoli, che si possono incastrare nel browser, per rendere la navigazione e la fruizione del web sempre più personalizzabile secondo i propri gusti ed esigenze.
Ad esempio, una cosa semplice e grandiosa insieme, per me, è Foxy Tunes: permette di controllare una quantità di Media Players direttamente dalla barra inferiore di Firefox. E’ assai ben fatta; presenta comandi per il volume, lo skip dei brani, pausa, stop, etc. Il titolo del brano in ascolto compare pure nelle barra del browser, e si può inviare anche come firma di post su blog (vedi qui sotto); con una piccola aggiunta, in servizi di microblogging come Twitter permette di postare rapidamente non solo il brano, ma anche (volendo) le pagine che si stanno leggendo, e altre cosette similmente amene… molto molto comodo, nell’uso quotidiano…!