Uno dei sottoprodotti più interessanti di tutta la bagarre che c’è stata (e ancora c’è) in seguito all’acquisizione di Twitter da parte di Elion Musk, con tutto il casino derivato anche dalle mosse incongrue del noto miliardario (come Paolo Attivissimo ha gustosamente documentato nel suo podcast, alcuni giorni fa), è che molta gente ha cominciato, come dire, a guardarsi intorno.
Sì, a cercare di capire se ci sono alternative praticabili a Twitter, per esempio. Sarebbe peraltro legittimo dubitare di una piattaforma finita in mano ad una persona che, in appena un giorno, ha licenziato metà dei dipendenti, si è mosso in modo randomico per cui si è fatta grande confusione con i famosi “bollini blu” di autenticazione, e infine – chicca delle chicche, probabilmente – ha affidato ad un sondaggio online una cosa tanto delicata quanto il ritorno su Twitter di Donald Trump.
Per inciso, sull’esito (di poco) favorevole al rientro di Donald (che peraltro ha dettograzie ma anche no) Elion si è affrettato ad affermare Vox Populi Vox Dei. Peccato che però tale conclusione – nel caso di Twitter almeno – sia parecchio discutibile, come altri hanno subito evidenziato.
Dietro a tante realizzazioni tecniche ci sono delle storie, e spesso sono proprio queste le cose più importanti. Quello che ci colpisce veramente è il “fattore umano”, quello che ci spinge a esplorare lo spazio o ammirare la complessità di un prodotto tecnologico, è sempre l’umano che scorgiamo dietro e dentro tutto questo.
Dopo averla letta – proprio per l’emergere limpido del “fattore umano” che ricerco – ho deciso che valeva proprio la pena. Vi invito a leggerla (in originale o nella presente traduzione), anche se lunga: rivela come pochi altri documenti – credo – come dietro ogni tecnica e tecnologia realmente degna di interesse, vi sia sempre l’uomo, le sue passioni, le sue paure, le sue speranze. Soprattutto, il suo irriducibile desiderio di costruire qualcosa che rimane.
Benvenuti a questa edizione della nostra serie Tools for Thought, in cui intervistiamo fondatori che hanno la missione di aiutarci a pensare meglio e a realizzare le loro ambizioni intellettuali e creative. Kazuki Nakayashiki è il cofondatore di Glasp, un social web clipper che consente agli utenti di condividere le proprie sottolineature e note mentre leggono, senza dover passare dal web a un’app per prendere appunti.
In questa intervista abbiamo parlato della natura dell’eredità umana, del problema dell’isolamento della conoscenza, della ripetizione dilazionata, della gestione sociale della conoscenza e dell’intelligenza collettiva, dell’apprendimento in pubblico, dell’impatto della responsabilità sociale sulla acquisizione di appunti e altro ancora. Buona lettura!
Ciao Kazuki, grazie mille per aver accettato questa intervista. Glasp è l’acronimo di “Greatest Legacy Accumulated as Shared Proof” (la più grande eredità accumulata come risorsa condivisa): puoi dirci qualcosa di più sul suo significato?
Grazie mille per avermi invitato. Sono un grande fan dei Ness Labs e sono onorato di essere qui oggi. Innanzitutto, crediamo che una delle attività più nobili sia quella di imparare, sperimentare e trasmettere le proprie conoscenze alle generazioni future. Il presente in cui ci troviamo oggi si fonda su ciò che i nostri predecessori hanno costruito in passato.
Quando si parla di eredità, non si intende necessariamente lasciare un’attività di successo o un sacco di soldi. Certo, è meraviglioso poter lasciare queste cose alle generazioni future, ma non credo che queste siano le eredità più grandi, perché non tutti possono lasciarle.
Credo invece che la più grande eredità sia quella di vivere una vita coraggiosa. È nell’atteggiamento di non farsi scoraggiare dalle difficoltà, di non essere eccessivamente pessimisti e di scommettere sulle possibilità e sulle speranze dell’umanità. E credo che questo significhi consegnare e comporre la nostra conoscenza, la nostra saggezza e la nostra storia per la prossima generazione.
Tuttavia, anche se ci troviamo sulle spalle dei nostri predecessori, non sappiamo come e da chi sia stata accumulata tutta quella conoscenza. Attraverso Glasp, vogliamo mettere le persone in condizione di consegnare, condividere e comporre la più grande eredità possibile. La nostra missione è democratizzare l’accesso all’apprendimento e alle esperienze che le persone hanno raccolto nel corso della loro vita. Così facendo, potremmo essere in grado di aiutare altri che potrebbero tentare di seguire un percorso simile in futuro.
E non mi verrebbe da definirlo diversamente, perché è davvero un eccellente evidenziatore sociale questo strumento. Così lo chiama anche Danilo Ruocco nel suo eccellente articolo (Danilo, giornalista e scrittore è uno degli ancora pochi italiani che ho trovato su Glasp, perché di questo si tratta).
La dinamica è estremamente semplice, ad un primo livello. Si istalla l’estensione per Chrome o derivati (Brave, Vivaldi eccetera) e da quel momento in poi si dispone di un set di evidenziatori, di vari colori, da usare in qualsiasi pagina web per marcare frasi di particolare interesse.
Ciò sta già cambiando il mio modus operandi, che in questi casi consisteva nel salvare la pagina su Pocket e poi andare lì ad evidenziare i passi principali.
Intorno a tutto il clamore per la chiusura dell’account Twitter di Donald Trump mi pare vi sia un fraintendimento. Soprattutto da parte di chi grida alla “censura”. Ragazzi, ci stiamo forse dimenticando una cosa semplice, ma essenziale. Twitter, Facebook (e gli altri) non sono servizi pubblici, sono aziende private che fanno quel che fanno per un ritorno economico, non certo per garantire una prestazione di pubblica utilità.
In nessun modo essere “bannati” da un social equivale ad essere censurati (se lo si percepisce così è perché il nostro mondo è dopato dalla comunicazione su Internet). Usando l’infrastruttura di un social per pubblicare i nostri pensieri, siamo semplicemente (piaccia o no) ospiti e mai padroni di casa (e i nostri dati, parimenti). Ogni social come Twitter ha i suoi termini di servizio in base ai quali, peraltro insindacabilmente, può decidere di metterti alla porta. Termini di servizio che ognuno di noi, incluso Donald Trump, ha dovuto formalmente accettare al momento dell’iscrizione.
Così, se è ipotizzabile che una autorità pubblica possa intervenire per chiedere di oscurare determinati account (incitamento alla violenza, terrorismo etc) non mi pare ugualmente pensabile che si possa pubblicamente protestare quando questo oscuramento viene deciso dal servizio medesimo. Io, rappresentante della collettività, posso dirti cosa non devi pubblicare, non posso certo dirti cosa devi pubblicare, in pratica. Decidi tu, sono i tuoi server. Dopotutto, è casa tua.
Le regole le fa il padrone di casa…
Infatti, se ci guardate bene, Twitter dice che l’account di Donald è bloccato per violazione dei termini di servizio. Questo è. La cosa strana anzi è che non sia accaduto prima (sarebbe un altro argomento da sviluppare).
Nessun problema, dunque? No, il problema c’è, ed è grande. Ma non è legato direttamente alla censura. Viene detto molto bene in questo tweet di Licia Troisi.
Oh, bella questa polemica sul PoroTrump che arriva con dieci anni di ritardo, dimenticando che il problema vero non è la censura di contenuti oggettivamente irricevibili, ma che abbiamo dato le chiavi dell’internet a quattro privati.
Non c’è niente da fare, apparentemente. Siamo abituati al lamento, e questa attitudine irriflessa, che spunta sempre inesorabile, quando non siamo intimamente disposti ad un lavoro su di noi, si riflette e si trasmette in quello che vediamo ed incontriamo. Ed ovviamente (ed è per questo che ne scrivo qui) anche nel mondo digitale, che è specchio abbastanza fedele di quello che usiamo chiamare reale.
Questo mondo dei social, che illustri analisi di esperti ed esternazioni di meno esperti, consegnano spesso ad un giudizio negativo senza possibilità di appello (salvo poi, almeno per i non più giovanissimi, ad usarlo comunque, al ritmo inesorabile della quotidianità), ecco, questo mondo dei social, ha una sua parte buona, una parte virtuosa che noi pure utilizziamo, di cui ci gioviamo, ma senza quasi accorgercene.
Ovvero, senza mettere l’accento sul positivo. Che pure ci farebbe bene, molto bene.
Quanta “carica positiva” può passare su Internet? Più di quanto pensiamo…
Per questo credo che raccontarci storie buone che riguardano l’uso dei media, non significhi affatto chiudere gli occhi sui tanti usi distorti che se ne possono fare, e che ben conosciamo. Tutt’altro: significa rischiare di aprirli davvero, quegli occhi, e mettersi di fronte ad una rivoluzione totale del modo di agire e pensare, il cui meccanismo propulsivo si trova proprio in questa innovazione tecnologica che ha investito la fine dello scorso secolo, di importanza senz’altro paragonabile all’invenzione della stampa nel quindicesimo secolo.
Mi è capitato l’altro giorno di leggere il bell’articolo di Massimo Mantellini su il Post, La storia di Paola e noi, che è un luminoso esempio di tutto questo. Il caso concreto che racconta, e che vi invito a leggere, è la dimostrazione limpida e commovente di quanto asserisce in apertura di articolo,
C’è una quantità enorme di bellezza nascosta intorno a noi. Ovunque, anche negli ambienti digitali, a dispetto di quello che sembrerebbe. Accanto all’orrore manifesto che salta subito agli occhi, all’odio, alla pochezza che ci colpisce e ci capita di sottolineare ogni giorno, esiste una quota molto grande di umanità e gentilezza che naviga sottotraccia, invisibile ai più, che racconta la complessità e le sorprese inattese del mondo.
Mai come in questo periodo va ricordato tutto questo. Dobbiamo essere grati di avere accesso ad un mondo digitale, che in realtà (sarà superfluo ricordarlo) non vale certo di per sé, ma per connetterci gli uni gli altri. Vale come una estensione della nostra umanità, vale nella misura della nostra aumentata capacità di stendere reti.
Mai come adesso, in un periodo nel quale illustri ministri ci diseducano all’uso appropriato dei social network, abbassando drasticamente la frequenza di trasmissione e coinvolgendoci in piccole beghe di un mondo litigioso, individuando sapientemente il nemico di turno (oggi una nave di una ONG, oppure [sic!] una comunistella tedesca, e spesso, alcuni poveracci in cerca di una vita dignitosa…), per esiziali strategie del consenso, facendoci credere, inducendoci a pensare, che il mondo sia veramente piccolo così, sia davvero povero così.
No, il mondo è molto più poetico e vasto e spazioso di questa degradazione mediatica di piccolo cabotaggio, che inquina prima il mondo del digitale e poi – di conseguenza – avvelena i nostri stessi pensieri (e basta vedere il triste codazzo di commenti furibondi a tanti post, con frasi assolutamente improponibili per livello di inciviltà raggiunto, basta vedere questo per capire che stiamo giocando con il fuoco).
Ecco perché è bello e giusto lavorare diversamente. Perché è bello e giusto, allora, raccontare di Paola, di una ragazza che affronta il suo male con ironia e leggerezza, e usa Twitter per trasmettere segnali di vita buona, di una vita effervescente e che non si arrende nel dolore della malattia, non si richiude nel lamento. Una vita che insegna, tanto, a tutti noi (che facciamo finta di essere sani, per dirla con Gaber).
La storia di Paola, in fondo, è la la storia di noi che abbiamo ancora una speranza. Anche quando sembrerebbe di no.
Giova ricordare, raccontare di queste storie, allora.
Facciamolo, continuiamo a farlo, continuiamo senza stancarci a ricercare e stanare la vena d’oro nel mare magnum di Internet. Portiamo a galla la bellezza, estraendola dal dato, e portandola al cuore.
Decisamente, non sono finiti i guai per Facebook. E’ notizia di ieri, una commissione del parlamento della Gran Bretagna ha diffuso un documento di 250 pagine che mostrerebbero come la società abbia agito in modo selettivo per avvantaggiare alcune società nell’utilizzo della piattaforma, a scapito di altre.
Al di là delle responsabilità, da accertare, è comunque significativo che la società di Zuckerberg stia da tempo navigando in acque non troppo tranquille. E’ probabilmente il segno di una epoca, di un cambiamento nel modo di vivere e pensare la rete, per cui una sola grande entità comincia a stare stretta a molti. Sì, siamo abituati a vivere dentro Facebook, ma iniziamo anche ad avere una sensibilità più accorta, più educata. Diventiamo piano piano utenti con maggiore consapevolezza.
Nel contempo, il potere della società dell’informazione è molto cresciuto. Quello che può fare oggi Facebook, nel bene e nel male (nell’informare o manipolare) non ha semplicemente alcun confronto con quello che poteva fare due o tre anni fa. E dunque il potere che consegnamo nella mani di questa entità informatica diventa – inevitabilmente – sempre più grande.
E’ significativo anche quello che sta accadendo da noi, con la corrosione progressiva degli strati intermedi, delle camere storiche di elaborazione, di costruzione di un senso. Come i giornali, e i giornalisti: strato appunto di produzione di un pensiero che si nutre di quanto avviene e ne restituisce un quadro, per quanto possibile, levigato, coerente. Magari di parte, comunque meditato.
Il salto degli strati intermedi è tale per cui un politico (specie quelli di oggi), preferisce di gran lunga affidare il proprio pensiero ad un social network (Facebook, o Twitter) elidendo d’un colpo solo gli strati intermedi di elaborazione, che si ritrovano spesso – ironia della sorte – ad inseguire la notizia dopo che ha ormai già raggiunto gli utenti. Cercando poi di fornire quell’elaborazione ormai posticcia, che un tempo poteva venire offerta in debito anticipo sul fatto stesso, o almeno in compartecipazione con esso.
Da Donald Trump al nostro Presidente del Consiglio, non si fa mistero di preferire questo canale così attrattivamente diretto per riferire ai simpatizzanti il proprio pensiero, la propria decisione su un argomento o un’altro. In questo modo però i social network guadagnano un potere ancora superiore, ancora più drastico, e una influenza diretta nella vita e nelle decisioni della gente. Questo nuovo potere è destabilizzante perché non arriva al termine di un processo ragionato e con una debita elaborazione concettuale, ma giunge come in vertiginosa salita, possiamo dire. Così che non è poi strano che possa provocare inciampi e incongruenze, come troppa benzina che arrivi di colpo ad un motore, progettato e concepito per un consumo molto più spartano.
Dopotutto Facebook partì, nell’ormai lontano 2004, come un progetto di uno smanettone, ad uso e consumo esclusivo degli studenti dell’università di Harward. Adesso, dopo poco più di una decina d’anni – nonostante il periodo un po’ problematico – si trova a detenere un posto di architrave nel sistema di informazione e comunicazione mondiale. Non troppo diverso il caso di Twitter, nato due anni dopo come sistema per inviare SMS ad un ristretto numero di persone.
Ora Facebook e Twitter sono usati dalle persone più potenti ed influenti della Terra, per comunicare direttamente il proprio pensiero.
Se nel post precedente abbiamo parlato della chiusura di Google+, l’unica vera possibilità di sfidare Facebook sul suo stesso terreno, dobbiamo dire però che anche quest’ultimo non se la passa molto molto bene.
Cioè, insomma.
E’ sempre il primo social network al mondo. Il che non è poi male, come risultato. Però ci sono anche dei segnali, delle tendenze, che portano a pensare che, dopotutto, l’era Facebook sia in fin dei conti come le altre, ovvero abbia un inizio ma anche una fine.
Segnali e tendenze che meritano attenzione.
Piccola parentesi. Così è stato, proprio così è stato, per l’epoca Yahoo! del resto. Il trionfo e la caduta del web uno punto zero è stato segnato dal percorso di questa azienda (i meno giovanotti se lo ricordano senz’altro). Tutto era di Yahoo!, ogni servizio valido era suo, in pratica. O se non era suo poco male: lo compravano, e lo diventava. Insomma, niente sembrava poter scalfire questo dominio.
E poi… è andata come è andata. Sono arrivati Google, poi Facebook. I servizi Yahoo! sono (più o meno) ancora in giro, come fossili nell’ambra, quasi, come segni di un modo di intendere il web che non è più, che ora semplicemente, non è più.
La rete deve rifrangere ogni colore, in modo limpido, aperto, nuovo.
Questo forse è il nostro problema, che è un problema percettivo, prima di tutto. Siamo abituati ad un orizzonte piccolo, troppo vicino. Noi siamo come schiacciati in un eterno presente, per quanto riguarda il web, tanto che rischiamo di non farci quasi più caso. Sì, la situazione può cambiare, per Facebook. Le voci critiche sul modo di operare del gigante dei social, sono sempre più numerose, e hanno diversi argomenti, anche piuttosto solidi.
Molti tra i più giovani hanno ormai abbandonato Facebook per Instagram, privilegiando un modo di comunicazione che avviene principalmente per immagini. Intanto, i problemi e le grane di Facebook – e non solo i dividendi – continuano a crescere.
Questo può essere visto anche con ottimismo, nella misura in cui si spera possa aprire l’epoca di una rete più poliedrica, portatrice di colori diversi, di modi e mondi diversi.
Nel complesso, per quanto Facebook sia grosso modo sempre uguale a sé stesso, sono i tempi con i quali si deve confrontare, che cambiano. Dall’inizio dell’era Facebook, si è molto modificata la nostra coscienza critica sull’uso dei dati personali, per esempio. Siamo sempre più consapevoli che la tutela di questi dati è continuamente a rischio, in un word wide web così pervasivo e tecnologicamente evoluto. E siamo sempre più avvertiti del ruolo decisivo che un’entità come Facebook può giocare in contesti molto variegati e esterni al web, dalla scelta di che prodotti consumare all’esito delle elezioni politiche negli stati sovrani.
Ci sono insomma segnali sempre più forti che ci dicono che le cose non possono andare avanti in questo modo. Abbiamo bisogno realmente di una rivoluzione nell’uso degli strumenti digitali. Una rivoluzione non violenta, lenta, ma reale. Per tanti versi, si capisce, chi è in posizione di potere cerca di mantenere lo status quo. Eppure è un lavoro difficile, sempre più difficile mano a mano che il contesto cambia, la percezione di rischi e benefici si allarga. La consapevolezza si diffonde.
La grande rete è totalmente diversa da come era nel 2004, anno di nascita di Facebook. Ed è in continua mutazione, in mutazione accelerata. L’unica per sopravvivere, è reinventarsi continuamente, è essere trasparenti davvero, è essere aperti davvero. Abbandonando pretese monopolistiche perseguite in modi opachi. Sognare una rete varia e multicolore, governata da una vera pluralità di soggetti, deve essere quello che ci spinge, la visione. Trasparenza, apertura, disponibilità alla coabitazione con altri soggetti. Piace pensare che chi vince, alla fine, chi rimane, lo possa fare per queste qualità.
Sono quelle cose che lo sai, lo senti, ad un certo punto devono accadere. E’ nell’aria, insomma: anzi a volte ti domandi ancora perché non accade, perché non sia accaduto già. Così, quando mi hanno segnalato che Google+ avrebbe chiuso, in fondo, non mi sono stupito.
Semmai mi sono stupito del fatto che non fosse già accaduto.
Scrivono adesso che il fatto è dovuto essenzialmente ad una falla di sicurezza. D’accordo, ma non mi convince del tutto. Del resto, Facebook ha avuto simili problemi, e sappiamo bene tutti come questo non abbia comportato alcun rischio di chiusura.
No, la cosa è un’altra. Questa semmai è l’occasione “giusta”, quello che serviva, per chiudere. Alla fine lo dice Google medesima, quasi a mezza bocca. Lo dice lei qual è la vera ragione:
the consumer version of Google+ currently has low usage and engagement: 90 percent of Google+ user sessions are less than five seconds
Dunque essenzialmente, chiude perché non è riuscita a sfondare. La gente non ci rimane, non ci dimora, su Google+. Viene qui, se viene, ma scappa altrove, subito. Su questo fallimento, ognuno può avere le sue idee. Essenzialmente, anche se ce lo aspettavamo, è una cosa che ci lascia l’amaro in bocca. Perché sancisce inequivocabilmente il primato di Facebook + Instagram, se vogliamo, le creature di Zuckerberg. E non ci dispiace perché non sono buone, o cose simili: in questa sede, tale argomento non lo consideriamo affatto. Ci dispiace perché non esiste più alcuna vera alternativa. Il progetto più credibile, quello con più investimenti alle spalle, sta sventolando bandiera bianca. La gente identifica sempre di più un social network con Facebook/Instagram, ormai. Non c’è verso di poter sviluppare un pensiero diverso.
Questo è abbastanza grave.
Non c’è verso di pensare un modo diverso per far andare avanti le cose. Un modo diverso per gestire le community, i gruppi, le pagine. Non c’è più spazio per un pensiero differente. Siamo omologati sul modello di Facebook, sulle storie di Instagram. Tutte cose molto ben fatte, per carità. Ma quello che si è perso, si sta perdendo, è una modalità diversa di vedere le cose.
Quando c’è un solo modo di vedere le cose, è comunque un impoverimento. Anche se quel modo fosse fantastico, fosse mirabolante. Già cinque anni fa parlavamo, in questo blog, di omologazione informatica, e ora non possiamo che ribadire questo concetto, ritornare su questo pericolo, sempre più reale.
Il web del 2018 è un business molto strutturato, non c’è spazio per innovazione ed improvvisazione, non è il web di vent’anni fa. Google pure si adegua. Google che, dalla sua, ha già una lunga serie di servizi interessanti che ha drasticamente interrotto, da Wave, a Jaiku, a Buzz… esperimenti interessanti, a volte molto interessanti, che hanno visto una fine drastica e (in certi casi) prematura.
Dobbiamo stare attenti. Vivendo dentro Facebook, dentro Instagram, senza nemmeno renderci conto, ne assorbiamo le regole, ci nutriamo del suo modo di vedere il mondo. A rischio è la varietà e la possibilità di un pensiero diverso, che sempre più non ha argini, non ha modalità espressive. E questo, lo ripetiamo, anche se Facebook fosse un ambito estremamente virtuoso ed esente da criticità (come non pare che sia, basti pensare al caso Cambridge Analytica).
Questo incide sul nostro vivere, incide più di quanto saremmo portati a pensare. Avverte Marco Guzzi, nel volume La nuova umanità, che “le tecnologie non sono semplici strumenti messi nelle mani di un uomo che se ne può servire come vuole restando comunque identico a se stesso, ma sono piuttosto pratiche complesse che plasmano e trasformano le nostre mani, e che quindi manifestano di volta in volta l’essenza storica (l’epocalità intrinseca) del nostro essere uomini.”
Chi ha vissuto l’epoca gloriosa della nascita del web, ricorda bene come Internet fosse davvero un campo di eventi che, nei fatti, rappresentava un formidabile volano per la creatività e l’iniziativa di singole persone o di piccoli gruppi. Ora non è più così, ora per sfondare ci vogliono investimenti massicci e team molto preparati. Probabilmente è una mutazione inevitabile, e non servirà a molto, i questa o altre sedi, rimpiangere i bei tempi antichi.
Serve solo, e serve urgentemente, essere consapevoli del tragitto che sta percorrendo il web. Per non subirlo, o viverlo passivamente, ma esserne – per quanto è possibile – protagonisti attivi, avvertiti dei vantaggi e dei rischi. Davanti ad una prospettiva di omologazione totale, riprendere la libertà creativa d’essere uomini nuovi, di abbeverarsi comunque ad un progetto di nuova umanità.
Uomini che usano il fatto tecnico, senza per questo esserne usati.
In questo piccolo blog, ci siamo occupati spesso di Facebook, e dei social network in generale. E come potrebbe essere altrimenti, verrebbe anche da chiedere, vista la pervasività che ha assunto negli ultimi anni il fenomeno social. Lo sappiamo, lo sappiamo bene: è qualcosa che è entrato irresistibilmente come abitudine nella nostra vita quotidiana, qualcosa alla quale abbiamo fatto spazio, perché evidentemente rispondeva ad un bisogno, ad una esigenza.
La nuova umanità, la figura di uomo moderno che si sta faticosamente facendo strada, ha come incorporata una esigenza di comunicazione a largo spettro, che superi le distanze e le differenze tra le persone, che si aggreghi intorno ad alcuni poli di interesse, che possa farci sentire insieme durante gli eventi e attraverso le difficoltà.
Chiunque abbia figli in età adolescenziale (e anche più grandi) osserva come ormai naturalmente essi si muovono nello spazio social che le varie piattaforme offrano, di come spesso lo integrino nella loro vita quotidiana che (a parte casi patologici) si svolge tanto online quanto offline, in un ibrido che coinvolge le diverse opzioni senza apparente soluzione di continuità: si va ad un evento e si prosegue online con le foto e i commenti, si rinforza la connessione sociale trovandoci online con le persone che conosciamo e con le quali abbiamo condiviso qualcosa nella vita reale, ci si mette d’accordo magari attraverso un gruppo WhatsApp per vederci da qualche parte, e così via.
Maturare una nuova consapevolezza nell’uso di Facebook, sarà tutto a nostro vantaggio…
Tutto questo, di cui volutamente ho sottolineato la parte virtuosa, non deve farci dimenticare che c’è anche una riflessione importante da portare avanti, ed è più urgente che mai. Ora che la gioiosa ed un po’ anarchica frammentazione informatica degli anni della giovinezza di Internet si è risolta calamitando i servizi intorno a pochissimi grandi poli (Google, Apple, Amazon, Facebook…), le preoccupazioni di un controllo e di una influenza sulla nostra vita (vedi il recente caso di Cambridge Analitica) ad opera dei nuovi potenti, non è più una nostalgia da complottisti, ma ha seri motivi per essere indagata, con serena pacatezza ma anche con grande attenzione.
Il problema è – scarnificando all’osso – se questo ecosistema garantisca la fioritura di un pensiero diverso da quello tecnico-commerciale di cui sostanzialmente si innerva questa struttura di byte che avvolge ormai tutto il nostro quotidiano. Non dimentichiamo che tutti questi servizi sono infatti prima di tutto, appunto, servizi commerciali e dunque il loro primo interesse è quello di realizzare profitto. Per la maggior parte dei casi, noi non paghiamo alcuna quota, e dunque il valore che portiamo, è ben noto, sono i nostri dati, ovvero la nostra stessa vita, rimappata in cifre e tabulati.
Dunque è bene fin da ora non cavalcare acriticamente il fenomeno, ma sviluppare e rinforzare via via una riflessione critica che, senza demonizzare inutilmente la tecnica moderna e le sue irrinuciabili acquisizioni, ci permetta di acquisire una consapevolezza più globale, di questo cambiamento di epoca, del quale i mezzi di comunicazione informatica sono un segno molto forte.
In questa direzione si muove una interessantissima puntata di Eta Beta, trasmissione su Radio Uno condotta da Massimo Cerofolini, che allarga la riflessione su Facebook all’ambito filosofico ed anche spirituale: un felice ampliamento che probabilmente il fenomeno stesso impone, se non si vuole rimanere in una analisi ristretta, lacunosa e alla fine inefficace. Questo è possibile grazie agli ospiti d’eccellenza, tra i quali Marco Guzzi (filosofo, poeta, fondatore dei gruppi Darsi Pace, autore del volume Facebook, il profilo dell’uomo di Dio) e Luciano Floridi, filosofo dell’università di Oxford e autore del libro La quarta rivoluzione, come l’infosfera sta trasformando il mondo.
Vi invito ad ascoltare il podcast della puntata, perché proprio da una analisi ad ampio spettro come questa, possono venire spunti utili per incrementare la propria consapevolezza, per stare dunque su Facebook finalmente come cittadini e non come sudditi. Il problema è infatti anche politico, come viene correttamente indicato nella parte conclusiva del programma. Scoprire, o riscoprire questo, alla luce delle parole di costruzione spese nella trasmissione, è necessario ed improcrastinabile.
Tutto ciò, direi, proprio per garantire più spazio alla nostra libertà, alla nostra libera espressività, che alla fine è l’unico vero valore che potrà mai utilmente circolare su Facebook. Come su ogni altro social, presente o futuro.
In effetti questa è una delle piattaforme di blogging più antiche. Anzi, è stata la piattaforma da cui tutto è partito. Il fenomeno blog, messo un po’ in sordina dall’esplosione dei social, sembra parte di un web antico, eppure ancora c’è. Blogger – risalente al secolo scorso, addirittura – è stata come sappiamo comprata da Google, ed è attiva tuttora. E dopo varie opzioni, diverse prove, diverse scelte, sto ricominciando ad apprezzarla. In confronto al tasso di innovazione e alla velocità di variazione di tanti ambienti come WordPress, Medium, etc – diciamolo subito – è una specie di dinosauro, di bradipo, insomma in movimento lento.
Lentissimo.
Blogger ha questo, di suo. Può far passare anni, senza che venga introdotta alcuna modifica. Interi anni (un anno, per un progetto Internet, equivale a mille secoli nel mondo reale). Tanto che ti chiedi se sia rimasto acceso solo per caso, magari qualcuno in Google si è dimenticato di spegnere l’interruttore. Tipo, non so, chi lo chiude Blogger stasera? Ok, faccio io. Ricordati però prima che vai via, eh.
Blogger è una faccenda per cui, nel suo blog (sì esiste un blog dedicato), può passare tranquillamente più di un anno da un post al successivo. Per esempio, il penultimo post è di marzo 2017, e l’ultimo è di maggio del 2018. Insomma con tempi dilatati tanto che pensi, beh, ma c’è ancora qualcuno lì?
Però nella sua lentezza, nella sua impermeabilità a ogni meccanismo social, ha i suoi pregi.
Per essere uno strumento gratuito, ne ha diversi. Per esempio, un controllo completo sul tema. L’editor dei temi arriva a livello delle linee di codice, permettendo di effettuare online delle modifiche il cui unico limite è la conoscenza del codice HTML e dei CSS di chi vi si trova in mezzo. WordPress, nella sua versione dot com, non permette che minime modifiche.
Ha poi una sua essenzialità, che trovo molto adeguata per siti personali o comunque di pretese relativamente modeste.
Blogger permette anche di associare un nome a domino senza pagare nulla, come del resto fa Tumblr (e basta, credo). Certo, i temi di WordPress sembrano più carini, nella media, ma si può sopravvivere lo stesso.
Si potrebbe continuare con elenco di pregi e difetti, ovviamente. Certo che alla fine è tutta questione di gusto, è una questione più emotiva che razionale. Così nell’espressione in rete la parte del cuore gioca un ruolo fondamentale, ora e sempre, anche quando si vorrebbe fare rotta verso una asetticità e un pragmatismo più elevato.
Meno male che non è così, meno male che anche qui possiamo sempre ripartire dalle emozioni, forse la parte che più di ogni altra attende di essere trasmessa in rete, per creare risonanze ampie e virtuose, fuori dalla litigiosità coatta di tanti social. Ci vuole una presa d’aria, un momento di tranquillità.
Dove pesare le parole, levigarle, assestarle. Assecondarle.
E fare spazio all’idea di… riprendersi questo spazio.
Dopo vari tentativi, diversi esperimenti, WordPress, VPS, Medium….