Termini di servizio

Intorno a tutto il clamore per la chiusura dell’account Twitter di Donald Trump mi pare vi sia un fraintendimento. Soprattutto da parte di chi grida alla “censura”. Ragazzi, ci stiamo forse dimenticando una cosa semplice, ma essenziale. Twitter, Facebook (e gli altri) non sono servizi pubblici, sono aziende private che fanno quel che fanno per un ritorno economico, non certo per garantire una prestazione di pubblica utilità.

In nessun modo essere “bannati” da un social equivale ad essere censurati (se lo si percepisce così è perché il nostro mondo è dopato dalla comunicazione su Internet). Usando l’infrastruttura di un social per pubblicare i nostri pensieri, siamo semplicemente (piaccia o no) ospiti e mai padroni di casa (e i nostri dati, parimenti). Ogni social come Twitter ha i suoi termini di servizio in base ai quali, peraltro insindacabilmente, può decidere di metterti alla porta. Termini di servizio che ognuno di noi, incluso Donald Trump, ha dovuto formalmente accettare al momento dell’iscrizione.

Così, se è ipotizzabile che una autorità pubblica possa intervenire per chiedere di oscurare determinati account (incitamento alla violenza, terrorismo etc) non mi pare ugualmente pensabile che si possa pubblicamente protestare quando questo oscuramento viene deciso dal servizio medesimo. Io, rappresentante della collettività, posso dirti cosa non devi pubblicare, non posso certo dirti cosa devi pubblicare, in pratica. Decidi tu, sono i tuoi server. Dopotutto, è casa tua.

Le regole le fa il padrone di casa… 

Infatti, se ci guardate bene, Twitter dice che l’account di Donald è bloccato per violazione dei termini di servizio. Questo è. La cosa strana anzi è che non sia accaduto prima (sarebbe un altro argomento da sviluppare).

Nessun problema, dunque? No, il problema c’è, ed è grande. Ma non è legato direttamente alla censura. Viene detto molto bene in questo tweet di Licia Troisi.

Eccolo qui, il vero problema.

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Paola, e la bellezza intorno

Non c’è niente da fare, apparentemente.  Siamo abituati al lamento, e questa attitudine irriflessa, che spunta sempre inesorabile, quando non siamo intimamente disposti ad un lavoro su di noi, si riflette e si trasmette in quello che vediamo ed incontriamo. Ed ovviamente (ed è per questo che ne scrivo qui) anche nel mondo digitale, che è specchio abbastanza fedele di quello che usiamo chiamare reale. 
Questo mondo dei social, che illustri analisi di esperti ed esternazioni di meno esperti, consegnano spesso ad un giudizio negativo senza possibilità di appello (salvo poi, almeno per i non più giovanissimi, ad usarlo comunque, al ritmo inesorabile della quotidianità), ecco, questo mondo dei social, ha una sua parte buona, una parte virtuosa che noi pure utilizziamo, di cui ci gioviamo, ma senza quasi accorgercene. 
Ovvero, senza mettere l’accento sul positivo. Che pure ci farebbe bene, molto bene.

Quanta “carica positiva” può passare su Internet? Più di quanto pensiamo…

Per questo credo che raccontarci storie buone che riguardano l’uso dei media, non significhi affatto chiudere gli occhi sui tanti usi distorti che se ne possono fare, e che ben conosciamo. Tutt’altro: significa rischiare di aprirli davvero, quegli occhi, e mettersi di fronte ad una rivoluzione totale del modo di agire e pensare, il cui meccanismo propulsivo si trova proprio in questa innovazione tecnologica che ha investito la fine dello scorso secolo, di importanza senz’altro paragonabile all’invenzione della stampa nel quindicesimo secolo.

Mi è capitato l’altro giorno di leggere il bell’articolo di Massimo Mantellini su il Post, La storia di Paola e noi, che è un luminoso esempio di tutto questo. Il caso concreto che racconta, e che vi invito a leggere, è la dimostrazione limpida e commovente di quanto asserisce in apertura di articolo,

C’è una quantità enorme di bellezza nascosta intorno a noi. Ovunque, anche negli ambienti digitali, a dispetto di quello che sembrerebbe. Accanto all’orrore manifesto che salta subito agli occhi, all’odio, alla pochezza che ci colpisce e ci capita di sottolineare ogni giorno, esiste una quota molto grande di umanità e gentilezza che naviga sottotraccia, invisibile ai più, che racconta la complessità e le sorprese inattese del mondo. 

Mai come in questo periodo va ricordato tutto questo. Dobbiamo essere grati di avere accesso ad un mondo digitale, che in realtà (sarà superfluo ricordarlo) non vale certo di per sé, ma per connetterci gli uni gli altri. Vale come una estensione della nostra umanità, vale nella misura della nostra aumentata capacità di stendere reti.

Mai come adesso, in un periodo nel quale illustri ministri ci diseducano all’uso appropriato dei social network, abbassando drasticamente la frequenza di trasmissione e coinvolgendoci in piccole beghe di un mondo litigioso, individuando sapientemente il nemico di turno (oggi una nave di una ONG, oppure [sic!] una comunistella tedesca, e spesso, alcuni poveracci in cerca di una vita dignitosa…), per esiziali strategie del consenso, facendoci credere, inducendoci a pensare, che il mondo sia veramente piccolo così, sia davvero povero così.

No, il mondo è molto più poetico e vasto e spazioso di questa degradazione mediatica di piccolo cabotaggio, che inquina prima il mondo del digitale e poi – di conseguenza – avvelena i nostri stessi pensieri (e basta vedere il triste codazzo di commenti furibondi a tanti post, con frasi assolutamente improponibili per livello di inciviltà raggiunto, basta vedere questo per capire che stiamo giocando con il fuoco).

Ecco perché è bello e giusto lavorare diversamente. Perché è bello e giusto, allora, raccontare di Paola, di una ragazza che affronta il suo male con ironia e leggerezza, e usa Twitter per trasmettere segnali di vita buona, di una vita effervescente e che non si arrende nel dolore della malattia, non si richiude nel lamento. Una vita che insegna, tanto, a tutti noi (che facciamo finta di essere sani, per dirla con Gaber).

 La storia di Paola, in fondo, è la la storia di noi che abbiamo ancora una speranza. Anche quando sembrerebbe di no.

Giova ricordare, raccontare di queste storie, allora.

Facciamolo, continuiamo a farlo, continuiamo senza stancarci a ricercare e stanare la vena d’oro nel mare magnum di Internet. Portiamo a galla la bellezza, estraendola dal dato, e portandola al cuore.

Soprattutto adesso. 

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Una nuova Europa digitale

Sono momenti particolari, quelli in cui viviamo. E’ proprio un’epoca straordinaria, unica. Dove il dato digitale orma interferisce con la vita reale nel senso che influisce – con inedita decisione – su quest’ultima. Il digitale, la grande rete (diciamo, Rete), è un mondo che innerva il nostro mondo, in una rete biunivoca di infinite corrispondenze. 
Avendo vissuto un’epoca in cui praticamente nessuno si occupava della Rete e dei fenomeni ad essa collegati, che pure sono stati vivi fin da subito, trovo significativo che ormai la stessa Rete trovi spazio in ogni serio documento che, dai punti di vista più disparati, si ferma ad analizzare lo stato delle cose e le possibili soluzioni per un cambiamento. 

Non fa eccezione il recentissimo manifesto di Emmanuel Macron intitolato “Per un Rinascimento Europeo” che è stato pubblicato in diverse lingue (tra cui quella italiana) sul sito dell’Eliseo. Non ci interessa in questa sede entrare in una analisi politica del testo, non è assolutamente nostro compito o nostro obiettivo. Stiamo al nostro focus che è di analizzare ciò che accade dal punto di vista specifico di come la tecnologia entra e modifica il quotidiano. 
L’Europa, è anche una serie di connessioni, è una autostrada digitale.
Da tenere pulita, aperta, libera, neutrale. 
In tal senso, il documento ha alcuni passaggi di deciso interesse. Nel paragrafo Difendere la nostra libertà, in esso si può infatti leggere

Il modello europeo si fonda sulla libertà dell’uomo, sulla diversità delle opinioni, della creazione. La nostra prima libertà è la libertà democratica, quella di scegliere i nostri governanti laddove, ad ogni scrutinio, alcune potenze straniere cercano di influenzare i nostri voti.

Ed è chiarissimo il riferimento a come i social media siano stati recentemente usati (e possono esserlo, sempre e di nuovo, in modi più o meno leciti) per influenzare l’opinione pubblica in un ambito così delicato come quello elettorale. Usati da privati e da potenze straniere. Riconoscerlo è un primo modo di difendersi: riconoscere il problema è un primo passo verso la soluzione.

Propongo che venga creata un’Agenzia europea di protezione delle democrazie che fornirà esperti europei ad ogni Stato membro per proteggere il proprio iter elettorale contro i cyberattacchi e le manipolazioni. In questo spirito di indipendenza, dobbiamo anche vietare il finanziamento dei partiti politici europei da parte delle potenze straniere. 

Si delinea infatti una strada possibile. O almeno, si individua un percorso possibile per una soluzione. Soprattutto, si mette in luce correttamente un problema.

Dovremo bandire da Internet, con regole europee, tutti i discorsi di odio e di violenza, in quanto il rispetto dell’individuo è il fondamento della nostra civiltà di dignità.

Questo, infine, potrà sembrare utopistico per taluni. O forse potranno sembrare belle parole. Trovo comunque saggio e interessante che venga scritto nero su bianco, che venga – per così dire – individuato chiaramente questo bisogno.  
Si dice in un altro punto del documento, che 

L’Europa, sono anche quelle migliaia di progetti quotidiani che hanno cambiato il volto dei nostri territori, quel liceo ristrutturato, quella strada costruita, l’accesso rapido a Internet che arriva, finalmente. Questa lotta è un impegno di ogni giorno perché l’Europa come la pace non sono mai acquisite. 

Quel finalmente, mi pare, balza fuori come una concessione quasi al parlato, rispetto alla struttura formale del documento. Ma dice bene come i nostri bisogni di connessione, di comunicazione, passino in maniera sostanziale nella Rete. E che bisogna tutelarne l’ambito, dissodarla e coltivarla come un giardino, perché appunto anche la sua pulizia non è mai acquisita. 
Ma è bello metterlo a tema e lavorarci, è sano.
Verso qualsiasi parte politica si propenda. 

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Problemi di crescita, in fondo.

Decisamente, non sono finiti i guai per Facebook. E’ notizia di ieri, una commissione del parlamento della Gran Bretagna ha diffuso un documento di 250 pagine che mostrerebbero come la società abbia agito in modo selettivo per avvantaggiare alcune società nell’utilizzo della piattaforma, a scapito di altre. 
Al di là delle responsabilità, da accertare, è comunque significativo che la società di Zuckerberg stia da tempo navigando in acque non troppo tranquille. E’ probabilmente il segno di una epoca, di un cambiamento nel modo di vivere e pensare la rete, per cui una sola grande entità comincia a stare stretta a molti. Sì, siamo abituati a vivere dentro Facebook, ma iniziamo anche ad avere una sensibilità più accorta, più educata.  Diventiamo piano piano utenti con maggiore consapevolezza.
Nel contempo, il potere della società dell’informazione è molto cresciuto. Quello che può fare oggi Facebook, nel bene e nel male (nell’informare o manipolare) non ha semplicemente alcun confronto con quello che poteva fare due o tre anni fa. E dunque il potere che consegnamo nella mani di questa entità informatica diventa – inevitabilmente – sempre più grande.

E’ significativo anche quello che sta accadendo da noi, con la corrosione progressiva degli strati intermedi, delle camere storiche di elaborazione, di costruzione di un senso. Come i giornali, e i giornalisti: strato appunto di produzione di un pensiero che si nutre di quanto avviene e ne restituisce un quadro, per quanto possibile, levigato, coerente. Magari di parte, comunque meditato. 

Il salto degli strati intermedi è tale per cui un politico (specie quelli di oggi), preferisce di gran lunga affidare il proprio pensiero ad un social network (Facebook, o Twitter) elidendo d’un colpo solo gli strati intermedi di elaborazione, che si ritrovano spesso – ironia della sorte – ad inseguire la notizia dopo che ha ormai già raggiunto gli utenti. Cercando poi di fornire quell’elaborazione ormai posticcia, che un tempo poteva venire offerta in debito anticipo sul fatto stesso, o almeno in compartecipazione con esso. 
Da Donald Trump al nostro Presidente del Consiglio, non si fa mistero di preferire questo canale così attrattivamente diretto per riferire ai simpatizzanti il proprio pensiero, la propria decisione su un argomento o un’altro. In questo modo però i social network guadagnano un potere ancora superiore, ancora più drastico, e una influenza diretta nella vita e nelle decisioni della gente. Questo nuovo potere è destabilizzante perché non arriva al termine di un processo ragionato e con una debita elaborazione concettuale, ma giunge come in vertiginosa salita, possiamo dire. Così che non è poi strano che possa provocare inciampi e incongruenze, come troppa benzina che arrivi di colpo ad un motore, progettato e concepito per un consumo molto più spartano.
Dopotutto Facebook partì, nell’ormai lontano 2004, come un progetto di uno smanettone,  ad uso e consumo esclusivo degli studenti dell’università di Harward. Adesso, dopo poco più di una decina d’anni – nonostante il periodo un po’ problematico – si trova a detenere un posto di architrave nel sistema di informazione e comunicazione mondiale. Non troppo diverso il caso di Twitter, nato due anni dopo come sistema per inviare SMS ad un ristretto numero di persone. 
Ora Facebook e Twitter sono usati dalle persone più potenti ed influenti della Terra, per comunicare direttamente il proprio pensiero. 

Normale che di tanto in tanto presentino  qualche piccolo problemino, mostrino segni di qualche crisi di crescita. Vorrei vedere, voi. 

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