Forse è argomento per StarDust, ma trattandosi (anche) di musica il post lo inserisco qui, su SegnaleRumore. Ecco qui infatti la playlist organizzata dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA) dedicata alla missione Juice, che dovrebbe essere lanciata a poche ora dal momento in cui scrivo queste righe.
Juice è destinata all’osservazione di tre lune ghiacciate di Giove: Ganimede, Europa e Callisto. Quasi inutile dire che per la presenza di acqua liquida sotto la superficie, sono di estremo interesse per gli studi sulla vita extraterrestre.
Certo il titolo è volutamente provocatorio, ma niente, mi veniva in mente ieri mattina mentre andavo al lavoro, una volta tanto in presenza (uno degli svantaggi dello smart working è che non hai questa possibilità, che colonna sonora vuoi mai goderti mentre ti sposti appena dalla camera da letto al salone). Ho messo su uno dei Daily Mix proposti da Spotify, quello che lei mi compila sulla musica italiana, e mi sono goduto alcune (per me) bellissime canzoni. Inanellate, si direbbe, con mano sapiente, in gustosa sequenza. Non troppo stranamente, mi sono trovato d’accordo con tutte le scelte proposte: tanto che ho ascoltato la scaletta con la netta sensazione che, tra me e Spotify, ormai c’eravamo ben capiti.
Dopo anni di utilizzo, in pratica Spotify mi ha profilato. Mi ha studiato, per ogni scelta musicale che compivo, ha incamerato dati sul mio comportamento (solo musicale, grazie al cielo) e ha memorizzato tutto, archiviando nei suoi server dislocati chissà dove. Facendone tesoro. Mi vuole conoscere, dal punto di vista del suono. Certo lo fa per un suo preciso interesse. Desidera che io torni spesso sulla piattaforma, che la frequenti sempre di più, che rinnovi il mio abbonamento e che non vagheggi evasioni su piattaforme diverse. Desidera continuare ad essere pagata, pertanto cerca di rendersi utile. Anzi, lei punta ad essere indispensabile, ormai lo so. Anche io un po’ la conosco.
Se non ti conosco, come posso cantarti qualcosa che ti piace?
Lo fa innegabilmente per un suo interesse. Che però, voglio dire, è anche il mio, in buona parte. Mi fa comodo, mi fa piacere, che nel tragitto casa-lavoro io debba appena pormi il problema se voglio ascoltare un po’ di musica italiana o di pop/rock o magari un sottofondo smooth jazz, e lasci a lei la bega di compilare la scaletta. Ieri, dicevo, mi ha regalato una serie di godibilissime canzoni italiane (a mia opinione, ovviamente, e il punto è proprio questo). Venditti, Fossati, Lauzi, Fabi, Graziani, Conte (niente, poi sono arrivato al lavoro proprio mentre Conte aveva appena finito di parlare delle donne che fanno pipì rischiando di perdersi il passaggio epico di Bartali, passando il testimone ad uno del calibro di Battisti, che a malincuore ho dovuto zittire). Ribadisco, sequenza mirabile e godibile.
Il ritorno è stato parimenti interessante, con uno scorrimento (diciamo così) sull’inevitabile Grande Raccordo Anulare condito dalle note (e le ugole) di Battisti, Fossati, Paoli, ancora Graziani, Zero, Venditti, De Gregori, Battiato, ancora Venditti (se volete impicciarvi un po’ di più e disquisire sulla scelte musicali c’è sempre il mio feed che Spotify confida quotidianamente a last.fm).
Capiamoci. Quando parlo di canzoni, non intendo canzoni qualsiasi, ma tutte canzoni meravigliose, sia chiaro. Lei sa anche cosa preferisco di ogni cantautore, ormai. Sa molto, indubbiamente. Anche se ogni tanto mi provoca, butta lì in mezzo un brano che non conoscevo ma che giudica affine a quelli che ascolto di solito. Tipo, senti un po’ questa Marco? Che ne dici, eh? (non glielo sento dire ma insomma è come se lo facesse). A volte così ho scoperto delle autentiche gemme. Insomma non mi tiene del tutto dentro la mia bolla, mi aiuta a scoprire cose nuove, sempre però in modo ragionato e progressivo.
Dunque alla fine, mi fa piacere essere profilato da Spotify. Non vanto alcuna privacy musicale da difendere, nei suoi confronti. Anzi, sono io che le dico vieni e impara dai miei gusti sempre di più, che mi fai contento. Sono lieto di essere profilato, anche se capisco che i miei dati rappresentino un valore, da lui giocabile in vari modi.
Che poi noi siamo un po’ strani, anche contraddittori a volte. Siamo capaci di passare una vita intera sperando che qualcuno ci profili adeguatamente, che apprenda i nostri gusti e le nostre simpatie, che intervenga e ci solleciti su cose che a noi specificamente interessano, che ci capisca a fondo, ma veramente a fondo. Esempi di questa nostra irresistibile aspirazione del cuore ce ne sono a bizzeffe, anche musicali (e parecchio struggenti). Abbiamo il desiderio profondissimo di essere capiti, completamente. Che ci sia, e sia vicino, chi mi conosce completamente, che ha realmente capito come sono (e mi ama così). Desiderio umanissimo, che ci porterebbe lontano analizzare.
Ma poi, ecco, ci irrigidiamo se qualcuno tenta di capirci davvero. Certo, già sento l’obiezione: Marco, il parallelo è troppo tirato! Qui non è un essere umano che si interfaccia con me, è appena una macchina. Non mi vuol bene, non mi capisce sul serio. Verissimo. Tuttavia è comunque un sistema che raccoglie informazioni su di me per migliorare il rapporto con me, mettiamola in questi termini. Sì certo, lo fa per i suoi interessi. Commerciali, lo consento.
Però così facendo, viene comunque incontro ad una mia esigenza, ad un mio desiderio. Proseguendo nella (sconsiderata) provocazione: preferisco ricevere pubblicità mirata rispetto a “consigli per gli acquisti” generici. Un libro di un autore che ho già letto, magari. Certo mi inquieta un attimo, vedere che appena dopo aver cercato (diciamo) tablet da otto pollici su Amazon, poi su un qualsiasi sito di notizie vedo diversi inserti pubblicitari sui vari tipi (guarda un po’) di tablet da otto pollici. Lì per lì mi inquieta un poco, poi mi passa. E magari un inserto pubblicitario di tablet mi interessa realmente, viene incontro ad una mia esigenza. Certo mi interessa di più di un modello di reggiseno (se non indossato) o una serie di otto chiavi a T snodate (dovendo ancora perfezionare l’entusiasmo per i piccoli lavori domestici). Non mi preoccupa di per sé che ci sia chi faccia soldi con alcune informazioni che mi riguardano, anche se questo non vuol dire necessariamente che sono disposto a svelarmi a lei (o a lui) completamente.
Insomma io voglio essere profilato. Voglio che si occupino di me, cose e persone (e anche animali). Forse è un rigurgito di narcisismo, forse una slittamento indebito su un terreno già scivoloso di suo, chi può dirlo. Ma va bene, insomma: occupatevi dei miei gusti. Fate la fatica di venire a conoscermi davvero, modellate il vostro servizio secondo quanto posso davvero gradire. Così il mio Spotify sarà unico, diverso da quello di tutti gli altri.
Probabilmente è quello che caratterizza di più la nostra epoca informatica. Lo streaming. L’utilizzo di beni e servizi “in comodato d’uso”, diciamo. Che poi è una rivoluzione sottile ma potente, del nostro concetto di uso e consumo di beni. Non paghi per possedere, ma paghi per avere accesso. Ha il suo senso, tutto sommato. Anche se, d’accordo, se tu ascolti solo su Spotify non puoi mica dire ad una persona “interessante” vieni su a vedere la mia collezione di dischi Jazz? (chiaro che ti toccherà inventare qualche altra cosa, su questo la creatività non segna certo il passo).
Una collezione Jazz ha sempre un suo perché…
Eh sì, io ero abituato proprio a pensare ed agire in questo modo (non dico per la collezione Jazz, che a me nemmeno piaceva il genere, purtroppo…) e lo sono stato per anni: banalmente, se voglio ascoltare un certo disco, devo procurarmelo, acquistarlo, copiarlo, scaricarlo. Insomma devo fare qualcosa, che ordinariamente – legalmente – richiede un esborso di denaro. Deve diventare in qualche modo un oggetto mio, sotto la mia giurisdizione. Che posso conservare per decenni, o perdere subito, o rovinare o prestare o farmi rubare. Così che ha senso dire “la mia collezione di vinili”, una frase che nell’epoca dello streaming invece rischia di non comprendersi più.
Che poi non è solo questo. E’ che cambia anche il modo di utilizzare le cose. Se dispongo di un insieme delimitato, finito, mi approccio a questo in un certo modo specifico. Se invece sono davanti ad una scelta vastissima – che percepisco addirittura come illimitata – mi muovo decisamente in un altra maniera. O meglio, devo ancora imparare come muovermi, per bene. Perché se sono nel bel mezzo ad una cascata immensa di dati, sono anche un po’ disorientato, all’inizio. E per forza!
Siamo qui, tra cascate di bit, valanghe di dati, per ritrovare un senso, un percorso…
Ho la fortuna particolare di vivere esattamente a cavallo di una rivoluzione epocale. Cosa che nessuno aveva mai vissuto prima. Una rivoluzione tanto scientifica quanto tecnologica, appunto. Per esempio, un dotto musico del XV secolo alla corte, magari, di Lorenzo de Medici, avrebbe passato la sua intera esistenza (magari, glielo auguriamo, molto molto lunga) senza che il suo rapporto con la fruizione della musica potesse cambiare di uno iota, appena.
Per me invece è già cambiato tutto. Da piccolino mi incuriosivano i massicci dischi a 78 giri che avevano mamma e papà. Materiale di famiglia di un’epoca che non era ancora conclusa (il nostro glorioso giradischi di casa, aveva ancora la velocità 78 ed anche l’apposita puntina, un poco più spessa). Era proprio buffo il 78 giri, sicuramente molti non l’hanno mai visto, non ne hanno mai tenuto in mano uno. Il disco era molto molto pesante e per niente flessibile. Lo mettevi sul piatto e una facciata durava appena pochi minuti (sulla qualità dell’audio e sulla quantità di rumore vario non mi pronuncio, ma dovete pensare che c’è stata un’epoca in cui era comunque lo stato dell’arte).
Poi ho traversato la mia infanzia, potremmo dire, in compagnia sonora di un mangiadischi e un po’ di 45 giri. Ascoltavo sempre quelli, non c’era altra possibilità, e nemmeno me la potevo figurare. Il mio universo musicale (e di fiabe) aveva confini precisi, le novità erano poche e arrivano, necessariamente, solo ogni tanto.
Poi sono arrivati anche per me i 33 giri, e già era moltissimo. Scricchiolavano dopo un po’ e ti rovinavamo i passaggi più delicati, ma potevi addirittura ascoltare venti minuti di musica buona, senza fare nulla, senza dover girare il disco. Niente male. Ed in contemporanea, più o meno, le musicassette, anche loro con i loro pregi e i loro bravi difetti (vere opere di ingegneria erano necessarie per ovviare agli inevitabili inceppamenti del nastro negli ingranaggi del lettore, a volte bisognava proprio andare di taglio & cucito).
Ora andando avanti veloce, torno ai nostri tempi, dove mi trovo a disposizione un flusso di musica virtualmente illimitato, per di più fatta a misura di quello che mi piace (il sistema, bravo bravo, impara dai miei stessi ascolti), una cascata dove entra in modo accuratamente miscelato, musica che conosco e nuovi brani, che non avrei mai ascoltato se non fossi collegato a questa specifica sorgente telematica.
E non è vero, come sostengono alcuni, che Spotify (o analogo servizio, ovviamente) mi abbia ristretto l’area di ascolto: per me, almeno, la ha allargata in modo incredibile. Non posso contare la musica nuova con la quale sono entrato in contatto in questo periodo relativamente breve, di uso assiduo di un abbonamento musicale in streaming. Mi posso avventurare in ogni momento in sentieri sconosciuti o conosciuti solo in parte, posso fare di testa mia e sentire quel disco oppure fidarmi e seguire una catena di algoritmiche concordanze, le quali mi portano da brani arcinoti ad alcune mirabolanti sorprese, autentici tesori finora nascosti: davvero musica per le mie orecchie.
Posso fare questo e molto altro, su un bacino di musica così vasto che per me – per quello che riuscirò ad esplorare nella vita – è virtualmente infinito.
Niente male, per un ragazzetto che è partito nell’avventura musicale, con un mangiadischi (uno scatolone rosso e bianco a marca LESA, rigorosamente monoaurale) e una ventina di polverosi 45 giri per foraggiarlo.
Quale altro periodo storico avrà mai alimentato una così grande avventura?
Era molto, che molti di noi lo aspettavano. E credo si possa dire, si possa dire senz’altro, che da qualche giorno siamo tutti un poco più ricchi. Dal 29 settembre, per la precisione. Giorno in cui il catalogo del “primo Battisti” (quello del sodalizio con Mogol, che ha prodotto moltissimi indiscutibili capolavori), è approdato finalmente sulle piattaforme di ascolto in streaming. Ovvero, nel luogo esatto dove in questo momento storico, si ascolta la musica, principalmente.
Verso la fine degli anni ’60
Come ogni fan di Lucio Battisti già sa, anche la data di questo evento non è una data scelta a caso. Riprende direttamente il titolo di una sua celebre canzone, una delle prime, appunto. Comunque, che Lucio Battisti ci sia mancato, su Spotify (e simili servizi ovviamente), è per me la semplicissima verità. Che ci sia mancato molto, intendo.
Così se pur rimane, per me, il desiderio (o il sogno) di avere a disposizione il catalogo completo, comprensivo del secondo periodo di Lucio, quello in collaborazione con Pasquale Panella (tanto bello e luminoso quanto ancora sostanzialmente non compreso) c’è comunque tutta la gioia di avere intanto alcuni dei suoi album più celebri, finalmente disponibili sulle piattaforme di streaming.
Che è davvero un arricchimento, per tutti. Non entro nel merito delle controversie legali che hanno tenuto le splendide melodie di Lucio lontane da Spotify e soci, non mi interessa qui. Dico soltanto che non sono per nulla d’accordo con chi ritene questa una commercializzazione e uno svilimento di alcuni degli album più belli della musica italiana. Au contraire!
Pensiamoci un momento. Ormai l’ascolto in streaming è la modalità normale di fruire della musica, per moltissime persone. Iniettare le canzoni di Battisti in questo circuito è riportarle in un certo modo in vita, rimetterle a disposizione di tutti, veramente. Permettere che questa musica fluisca finalmente fuori dal contenitore del CD, che ormai (in termini di modalità di fruizione) comincia a mostrare tutta la sua età.
No, non è che averli su Spotify è semplicemente avere aperto un’altro canale di fruizione. E’ che questo canale è particolarmente ricco e ha delle sue peculiarità. Brani come Emozioni, oppure Non è Francesca – brani che sono come la pietra angolare di tanta espressività musicale del nostro paese – di fatto, facendosi liquidi, circolando in forma di bytes nei circuiti musicali (ufficiali e legali) entrano di fatto nel regno dell’intelligenza artificiale, e di tutto quel che si può fare con essa.
Non sono ascoltabili soltanto come album, appunto. Ben altro, già li aspetta. Infatti, esplodono nei colori della modernità, che vuol dire che diventano il centro propulsore di compilations, playlist, “radio” tematiche, e ogni altra derivazione che i sapienti algoritmi dei servizi di streaming oggi possono proporre. Escono prepotentemente dal “compartimento stagno” del compact disc, sostanzialmente e costituzionalmente refrattario ad ogni ibridazione e contaminazione, digitalmente asettico e in sé stesso conchiuso, e si aprono al resto del mondo (musicale), fecondano e fermentano una serie imprevedibile e quasi insondabile di possibili articolazioni. Tutte da indagare e da godere, per chi è appassionato.
Insomma, il punto è che le canzoni di Battisti in qualche modo, crescono, con questo passaggio importante. Diventano qualcosa che non era nemmeno pensabile, nel momento in cui sono state concepite. L’arte che spiazza e decentra incontra la precisione informatica dei più sofisticati algoritmi, un matrimonio tra diversissimi che, forse proprio per questo, promette di durare ed essere anche molto fecondo.
Per dire, ora una delle tante playlist di musica italiana non sarà più costruita attorno ad una mancanza, ma guadagnerà senz’altro caratteri di integrità e completezza, mai azzardati prima di questo fine settembre.
E il consumo della musica di Lucio Battisti diventa anche tracciabile, monitorabile, indagabile. Alfine, esposto e disposto al data mining, in tutte le sue forme, presenti e future. Al momento che finisco di scrivere questo post, il conteggio delle riproduzioni dei brani più gettonati (termine alquanto desueto ma in fondo adeguato) del nostro, sono (guarda un po’) quel 29 settembre nel quale tutta questa storia ebbe inizio (577.509) poi Mi ritorni in mente con 540.761 riproduzioni e appena dopo, immancabile capolavoro, Il mio canto libero (501.338 riproduzioni). Sono i tre brani che, all’alba del 3 ottobre, hanno passato il mezzo milione di riproduzioni. E sono passati appena quattro giorni e un pochino, dall’apertura del catalogo. C’è da scommettere che quando leggerete queste righe, i numeri che ho riportato siano già ampiamente superati.
Insomma. C’è bisogno di buona arte, di buona musica, di buon parlare, in questo mondo, troppo spesso asservito alla distrazione e al chiacchiericcio. Mettere Lucio Battisti in rete risponde (al di là delle ovvie logiche commerciali, sempre presenti) a questo bisogno, va in questa direzione. Dunque è una cosa bella, luminosa. Che fosse prudente “preservare” Lucio dai social, dalla rete, come dicono alcuni? Forse, in un certo senso. Teniamo conto però che troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante, come ci ricorda proprio il nostro cantautore (La collina dei ciliegi, ovvero qualcosa che sta alla musica popolare italiana, per lo splendido equilibrio, come una sonata per pianoforte di Mozart sta alla musica classica). Aggiungendo, e quasi sempre dietro la collina il sole. Quando avremo anche il catalogo del secondo Battisti, i meravigliosi cinque album con Pasquale Panella (tanto sperimentali quanto autenticamente godibili) avremo ancora un poco più di sole, nelle orecchie e sulla pelle, in ricircolo nel cuore. Per ora, godiamoci queste piccole gemme. Ironiche, scanzonate, profonde, canticchiabili. Diciamolo, eterne.
Grazie Lucio. Ci ritorni in mente, oggi più che mai. E comunque, ci manchi.
Mi rendo conto, sempre di più, che quello che per me è scontato, assodato, stabilito una volta per tutte, per altri può essere invece qualcosa di inedito, di non visto, di nuovo. Questo è l’impatto della tecnologia nel mondo di oggi, che quello che è normale (tanto normale che è inutile dirselo) per una generazione, può essere totalmente sconosciuto a quella successiva.
Credo che sia una caratteristica peculiare di questo cambiamento d’epocadi cui spesso sentiamo parlare (qui ovviamente declinato in riferimento all’ambito tecnologico). Ogni cosa è drammaticamente accelerata, ogni cosa si gioca nello spazio ristretto di pochi anni, ogni cosa viene sostituita presto: non solo da nuovi strumenti, ma da nuove procedure, nuovi approcci, modi diversi di fare le stesse cose. Modi diversi di vederle, anche.
Mi pare emblematico, in questo, il semplice caso dell’ascolto di musica registrata.
Quello che facevo io, da (più) giovane, non è quello che si fa adesso. I (più) giovani, adesso, agiscono e pensano la musica, in modo totalmente diverso.
Ma dobbiamo andare nel dettaglio, per capire. Mettiamoci all’inizio degli anni ’80, facciamo, prima dell’avvento del Compact Disc (che è già modernariato di suo, adesso). Cosa si faceva per ascoltare musica? Sì ovviamente c’era la radio, ma lì dovevi prendere quel che ti capitava. Ma se volevi proprio ascoltare un po’ di prog rock, ad esempio, facilmente dovevi ricorrere ad altre fonti.
No, Spotify non c’era. Perché nemmeno Internet, nemmeno quello c’era.
Dunque nemmeno scaricare musica era un’opzione praticabile.
Nemmeno pensabile, in realtà.
La puntina che percorreva i solchi, la musica era questa un tempo…
Facciamo un bel salto indietro, sprofondiamoci un poco nel secolo scorso, allora. Il tempo di compiere un’azione normale, quotidiana, come ascoltare un disco.
Quel ragazzo degli anni ’80, allora, si avvicina alla sua preziosa collezione di vinili, la percorre con il dito, si ferma su un disco, proprio ciò che in questo momento lo attira di più. Lo estrae dallo scaffale e guarda la copertina. Abbastanza grande, per fortuna (altro che CD o peggio, la visualizzazione dentro Spotify). Abbastanza estesa da poterci entrare, da poter entrare con l’immaginazione dentro il disco, le sue atmosfere, le sensazioni degli ascolti passati, la promessa di un altro passaggio interessante. Ci si perde proprio, nelle copertine dei 33 giri. Sopratutto se sono apribili, così si raddoppia l’area interessata.
E’ un pregustare visivamente qualcosa che l’esperienza sonora avrebbe poi integrato, confermandolo.
E’ un matrimonio gioioso tra esperienza visiva ed esperienza uditiva, per un’arte che anela a farsi totale.
Bene, il disco è scelto (lasciamo perdere i discorsi complicati altrimenti non ne usciamo).
A questo punto quel ragazzo (quello di prima), estrae con cura il vinile, lo esamina in controluce (e pensa, … ammazza quanta polvere…), prende uno straccetto apposito, afferra una bomboletta spray apposita, spruzza lo spray sul panno e così inumidito lo passa amorevolmente sulle facciate del disco. Dall’interno verso l’esterno, a spirale, come insegnano nelle riviste specializzate: con un movimento continuo, in modo da portare la polvere in fuori.
Esaminato di nuovo il disco, ora gli appare più lucido. si può finalmente procedere.
Accende lo stereo, pone con attenzione il vinile sul piatto (lato A in alto, ovviamente), e con delicatezza appoggia la puntina del giradischi sui primi solchi, quelli più esterni (ad essere pignoli, ha anche spazzolato via la polvere dalla puntina con l’apposita spazzoletta di setole morbide). Alle prime note, consapevole che tutto sta andando bene, chiude lo sportellino di plastica trasparente, per evitare la caduta di altra polvere sulla facciata esposta del disco. Un po’ di fruscio, a motivo degli ascolti ripetuti, ma la musica sta già iniziando. Ottimo. A questo punto ci sono un venti minuti circa (mediamente) in cui si può ascoltare senza dover fare null’altro.
Dopo tale tempo, finito il lato A (si capisce anche dal click che fa il braccetto del giradischi alzandosi e ritornando in posizione di riposo), si alzerà e girerà il disco, verificando che sia pulito, e ripetendo la procedura per l’ascolto.
Avesse avuto poi voglia di nuova musica, questo stesso ragazzo non è che accendeva il computer e tanto tutta la musica era lì (come avviene oggi avendo una qualsiasi sottoscrizione ad un servizio di streaming). Macché. Doveva andare al negozio, entrare, respirarne l’aria, avvertire quel senso piacevole del pregustare il momento della scelta, il muoversi tra gli scaffali, il chiedere al commesso, lo sperare trepidamente che quel nuovo disco fosse già arrivato…
Anche scegliere al negozio, era una piccola avventura…
Bene, spero si sia capito: c’era innegabilmente una certa ritualità in tutto il processo.
Che aveva peraltro le sue leggi, i suoi vincoli.
Per esempio, le playlist coincidevano con i vinili fisici che si possedevano. Ognuno è una playlist, se volete. E la cosa finisce lì. Non c’è modo facile per ascoltare in sequenza una serie di brani secondo una certa scaletta, modificarle l’ordine, aggiungere e togliere canzoni. Nulla di tutto questo.
Nessuna playlist facilmente condivisibile su Spotify, insomma. Non parliamo poi di playlist collaborative. L’unica “playlist collaborativa” poteva consistere – volendo – nel mettersi con qualche amico intorno ad un tavolo (carta e penna muniti), decidere un elenco di brani, poi pazientemente riversarli su musicassetta, togliendo e mettendo i dischi e fermando il registratore durante le operazioni manuali necessarie tra un brano e l’altro. Una volta ci ho provato, a farmi una mia playlist. Una fatica improba, oggi peraltro assolutamente incomprensibile.
Ovviamente questa playlist, anche così pazientemente realizzata, non era facilmente modificabile. Al massimo, potevi aggiungere brani in coda alla cassetta, nel nastro rimasto vuoto. Ma cose come alterare l’ordine dei brani, beh era semplicemente fantascienza.
Ancor più di estrema fantascienza (o anche oltre, io non ci pensavo affatto), l’idea di un sistema che ti suggerisca brani a tua misura, un sistema che impari i tuoi gusti analizzando le tue scelte musicali, e ti fornisca indicazioni sempre più precise. Addirittura, ti compili automaticamente delle scalette pronte per l’ascolto, senza che tu debba fare o decidere alcunché (Spotify lo fa, e immagino anche gli altri maggiori servizi di streaming).
Tutto questo, certo, nemmeno nell’epoca dei CD, che pure hanno reso molto più veloce e a prova di errore, la procedure di ascolto dei dischi. Anche a prova di deterioramento, in un certo senso. O meglio, ovviato il deterioramento progressivo, analogico (gli scricchiolii che aumentano ad ogni ascolto, tanto più fastidiosi quanto più il passaggio musicale ha una dinamica ampia…), arriva però quello digitale, limpido ed assolutamente implacabile, assai più drastico e manicheo di quello precedente (graffia un po’ un cd appena comprato e vedi se non puoi far altro che buttarlo).
Per questa nuova gestione della musica, a cui oggi siamo già praticamente abituati, ci voleva il matrimonio tra musica ed Internet. Ma il matrimonio doveva attendere, prima che uno dei due soggetti nascesse… e poi che diventasse maturo.
Ora che tutto questo è avvenuto, senz’altro un modo nuovo di ascoltare musica sta diventando il modo normale. Un modo di ascoltare musica sempre più slegato dal supporto fisico, e sempre più smaterializzata, consistente in un flusso di byte che viaggia tra server, computer e telefonini, poi finalmente riconvertito in musica.
E improvvisamente succede. Tutta la musica che pazientemente ti sei messo da parte negli anni, tutto d’un tratto è come se non ci fosse. Eh sì, perché se ti abboni ad un servizio come Spotify o Rdio (che è quello che io preferisco) improvvisamente è come se tu avessi appena una pozzanghera, un laghetto, di fronte all’oceano di dischi che ti puoi ascoltare.
Eccoli lì tutti i dischi, hai davvero un archivio sterminato da sentire. Quando realizzi che tutti i dischi che hai comprato, potevi non comprarli, se solo avessi avuto accesso a queste risorse un po’ prima. Lo so, lo so, è vero. Tecnicamente c’è ancora una bella differenza. Questi dischi sono tuoi, mentre l’acesso al mare magnum tipicamente ti costa qualcosa. Che poi sono circa 5 euro al mese, oppure il doppio se vuoi l’accesso anche da tablet e smartphone. Spotify a dire il vero permette anche un utilizzo gratuito, ma è fastidiosamente interrotto da spot pubblicitari e vi sono altre limitazioni, per cui di solito ci si stanca presto. Almeno, io mi stanco subito.
Dopo un po’ di prove e di oscillazioni tra Spotify e il meno noto ma non meno valido Rdio, ho scelto – come qualcun altro – di dare i miei soldi al secondo. E vi dico perché, in qualche punto.
L’interfaccia. Quella di Rdio è più chiara e pulita di quella di Spotify, la trovo più sobria e piacevole. Certo, questione di gusti.
Il web. Rdio funziona benissimo anche dal browser. Spotify manco se lo sogna.
I dischi. I dischi, i dischi!! Io sono cresciuto collezionando dischi in vinile, musicassette, poi CD, poi collezioni di mp3. Ma ho profondamente impressa nei cromosomi la “struttura” logica del disco. Un disco è un lavoro completo, organico, indicativo di una certa epoca e di un certo percorso di maturazione artistica di chi lo ha realizzato (ecco perché non mi entusiasmano le antologie, di solito). Ora tu, caro Spotify, che mi combini? Voglio aggiungere un disco (una unità organica completa e compiuta, ribadisco) alla mia antologia. E tu che fai? Me lo fai aggiungere ad una playlist? Ma siamo impazziti? Io voglio aggiungere il disco, in quanto tale. Su Rdio posso aggiungere il disco alla mia collezione. Il disco. Proprio lui. Senza ingrossare una generica playlist. E questo è molto, per uno come me.
Ci sono i Pink Floyd su Rdio. Non ci sono i Pink Floyd su Spotify. Io amo i Pink Floyd.
Altre minuzie… con Rdio puoi usare una device come telecomando per pilotare l’altra. Puoi usare l’iPad per pilotare i brani che ascolti sul desktop, per esempio. Simpatico ed ingegnoso.
Qualità. Questo prendetelo cum grano salis, ma a me pare che lo streaming su Rdio sia più limpido rispetto all’altro. Ma, non garantisco. Magari mi sbaglio.
Certo c’è il fatto che ora tutti sono su Spotify, e l’aspetto social è molto più evidente colà. Quindi ecco, mi dispiace per i miei amici in Facebook, non potrò vedere cosa ascoltano. Ma io mi trovo meglio qui.
In ogni caso, uno o l’altro (o qualcun altro ancora) è evidente che siamo sulla soglia di un altro modo di ascoltare la musica. E ti cambiano i paradigmi. Ora invece che ascoltare e riascoltare – ad esempio – le sonate per pianoforte di Mozart da un solo interprete, ecco che sbalordisco di fronte alle scelte che mi trovo davanti. Posso ascoltarle varie volte cambiando sempre interprete. Assimilando le differenze, le affinità.
Una cosa abbastanza inconcepibile fino a poco tempo fa.