L’ultima è che Elion Musk avrebbe acquistato Twitter perché costretto dalle varie vicende giudiziarie. Sia come sia, non cambia la zuppa. Stiamo affidando le nostre comunicazioni, la comunicazione dei nostri stati d’animo, del nostro sentire, del nostro vivere, a strutture e persone che vogliono solo fare business, che non hanno un ideale, una missione, un sogno.
Non mi sono pentito di avere (praticamente) abbandonato il mio account Twitter, tempo fa, per approdare a Mastodon. Sempre più il destino della piattaforma di microblogging sembra essere legato alle eccentricità del suo nuovo proprietario, per cui è lecito perfino dubitare sul destino a lungo termine di tale piattaforma. Per citare Paolo Attivissimo, la gestione di Twitter sotto Elon Musk sta inanellando una serie di idiozie informatiche davvero straordinarie.
Quanto è libero il canto degli uccelli! Ma quello blu?
L’ultima mossa è la scomparsa di Twitter Inc. che, come annota HDBlog.it, segna la nascita di una nuova era, sempre più Musk-dipendente. Dove appunto Twitter Inc. si scioglie nelle varie x-qualcosa dell’eccentrico miliardario.
Uno dei sottoprodotti più interessanti di tutta la bagarre che c’è stata (e ancora c’è) in seguito all’acquisizione di Twitter da parte di Elion Musk, con tutto il casino derivato anche dalle mosse incongrue del noto miliardario (come Paolo Attivissimo ha gustosamente documentato nel suo podcast, alcuni giorni fa), è che molta gente ha cominciato, come dire, a guardarsi intorno.
Passeremo dall’uccellino al mastodonte? Presto per dirlo, ma è il momento giusto per provare…
Sì, a cercare di capire se ci sono alternative praticabili a Twitter, per esempio. Sarebbe peraltro legittimo dubitare di una piattaforma finita in mano ad una persona che, in appena un giorno, ha licenziato metà dei dipendenti, si è mosso in modo randomico per cui si è fatta grande confusione con i famosi “bollini blu” di autenticazione, e infine – chicca delle chicche, probabilmente – ha affidato ad un sondaggio online una cosa tanto delicata quanto il ritorno su Twitter di Donald Trump.
Per inciso, sull’esito (di poco) favorevole al rientro di Donald (che peraltro ha dettograzie ma anche no) Elion si è affrettato ad affermare Vox Populi Vox Dei. Peccato che però tale conclusione – nel caso di Twitter almeno – sia parecchio discutibile, come altri hanno subito evidenziato.
Intorno a tutto il clamore per la chiusura dell’account Twitter di Donald Trump mi pare vi sia un fraintendimento. Soprattutto da parte di chi grida alla “censura”. Ragazzi, ci stiamo forse dimenticando una cosa semplice, ma essenziale. Twitter, Facebook (e gli altri) non sono servizi pubblici, sono aziende private che fanno quel che fanno per un ritorno economico, non certo per garantire una prestazione di pubblica utilità.
In nessun modo essere “bannati” da un social equivale ad essere censurati (se lo si percepisce così è perché il nostro mondo è dopato dalla comunicazione su Internet). Usando l’infrastruttura di un social per pubblicare i nostri pensieri, siamo semplicemente (piaccia o no) ospiti e mai padroni di casa (e i nostri dati, parimenti). Ogni social come Twitter ha i suoi termini di servizio in base ai quali, peraltro insindacabilmente, può decidere di metterti alla porta. Termini di servizio che ognuno di noi, incluso Donald Trump, ha dovuto formalmente accettare al momento dell’iscrizione.
Così, se è ipotizzabile che una autorità pubblica possa intervenire per chiedere di oscurare determinati account (incitamento alla violenza, terrorismo etc) non mi pare ugualmente pensabile che si possa pubblicamente protestare quando questo oscuramento viene deciso dal servizio medesimo. Io, rappresentante della collettività, posso dirti cosa non devi pubblicare, non posso certo dirti cosa devi pubblicare, in pratica. Decidi tu, sono i tuoi server. Dopotutto, è casa tua.
Le regole le fa il padrone di casa…
Infatti, se ci guardate bene, Twitter dice che l’account di Donald è bloccato per violazione dei termini di servizio. Questo è. La cosa strana anzi è che non sia accaduto prima (sarebbe un altro argomento da sviluppare).
Nessun problema, dunque? No, il problema c’è, ed è grande. Ma non è legato direttamente alla censura. Viene detto molto bene in questo tweet di Licia Troisi.
Oh, bella questa polemica sul PoroTrump che arriva con dieci anni di ritardo, dimenticando che il problema vero non è la censura di contenuti oggettivamente irricevibili, ma che abbiamo dato le chiavi dell’internet a quattro privati.
Decisamente, non sono finiti i guai per Facebook. E’ notizia di ieri, una commissione del parlamento della Gran Bretagna ha diffuso un documento di 250 pagine che mostrerebbero come la società abbia agito in modo selettivo per avvantaggiare alcune società nell’utilizzo della piattaforma, a scapito di altre.
Al di là delle responsabilità, da accertare, è comunque significativo che la società di Zuckerberg stia da tempo navigando in acque non troppo tranquille. E’ probabilmente il segno di una epoca, di un cambiamento nel modo di vivere e pensare la rete, per cui una sola grande entità comincia a stare stretta a molti. Sì, siamo abituati a vivere dentro Facebook, ma iniziamo anche ad avere una sensibilità più accorta, più educata. Diventiamo piano piano utenti con maggiore consapevolezza.
Nel contempo, il potere della società dell’informazione è molto cresciuto. Quello che può fare oggi Facebook, nel bene e nel male (nell’informare o manipolare) non ha semplicemente alcun confronto con quello che poteva fare due o tre anni fa. E dunque il potere che consegnamo nella mani di questa entità informatica diventa – inevitabilmente – sempre più grande.
E’ significativo anche quello che sta accadendo da noi, con la corrosione progressiva degli strati intermedi, delle camere storiche di elaborazione, di costruzione di un senso. Come i giornali, e i giornalisti: strato appunto di produzione di un pensiero che si nutre di quanto avviene e ne restituisce un quadro, per quanto possibile, levigato, coerente. Magari di parte, comunque meditato.
Il salto degli strati intermedi è tale per cui un politico (specie quelli di oggi), preferisce di gran lunga affidare il proprio pensiero ad un social network (Facebook, o Twitter) elidendo d’un colpo solo gli strati intermedi di elaborazione, che si ritrovano spesso – ironia della sorte – ad inseguire la notizia dopo che ha ormai già raggiunto gli utenti. Cercando poi di fornire quell’elaborazione ormai posticcia, che un tempo poteva venire offerta in debito anticipo sul fatto stesso, o almeno in compartecipazione con esso.
Da Donald Trump al nostro Presidente del Consiglio, non si fa mistero di preferire questo canale così attrattivamente diretto per riferire ai simpatizzanti il proprio pensiero, la propria decisione su un argomento o un’altro. In questo modo però i social network guadagnano un potere ancora superiore, ancora più drastico, e una influenza diretta nella vita e nelle decisioni della gente. Questo nuovo potere è destabilizzante perché non arriva al termine di un processo ragionato e con una debita elaborazione concettuale, ma giunge come in vertiginosa salita, possiamo dire. Così che non è poi strano che possa provocare inciampi e incongruenze, come troppa benzina che arrivi di colpo ad un motore, progettato e concepito per un consumo molto più spartano.
Dopotutto Facebook partì, nell’ormai lontano 2004, come un progetto di uno smanettone, ad uso e consumo esclusivo degli studenti dell’università di Harward. Adesso, dopo poco più di una decina d’anni – nonostante il periodo un po’ problematico – si trova a detenere un posto di architrave nel sistema di informazione e comunicazione mondiale. Non troppo diverso il caso di Twitter, nato due anni dopo come sistema per inviare SMS ad un ristretto numero di persone.
Ora Facebook e Twitter sono usati dalle persone più potenti ed influenti della Terra, per comunicare direttamente il proprio pensiero.
Ormai le oscillazioni sono finite, il sistema è stabilizzato. E credo che rimarrà così per un bel pezzo. Ci sono due social network – o al massimo due e mezzo, se vogliamo. I due social, lo sappiamo tutti, sono Facebook e Twitter. Il mezzo, se vogliamo considerarlo così, è Google Plus. Google sta spingendo tanto il suo clone di Facebook (con qualche differenza in meglio e qualcuna in peggio) ma la mia sensazione è che sia comunque arrivata troppo tardi, quando la convergenza universale verso Facebook aveva già tagliato fuori le varie alternative. E ridotto drasticamente la varietà di possibili opzioni, anche future.
Mi viene in mente questi sere seguendo (a volte distrattamente) le trasmissioni di Sky relative alle olimpiadi invernali in corso di svolgimento. Anche se sono intento a fare altro, la mia mente filtra le parole interessanti, e soprattutto mi colpisce come – in diverse occasioni – rilancino diverse volte l’hashtag per comunicare messaggi alla redazione via Twitter.
Questo mi fa capire bene quanto sia cambiato il mondo informatico, rispetto a pochi, pochissimi anni fa. Quanto all’esplosione di piattaforme e di possibilità si sia succeduto rapidamente una fase contrattiva, dove tutto l’interesse si è raggrumato rapidamente intorno a pochissime piattaforme.
Ormai non sembra vi siano molte altre possibili direzioni…
Facebook e Twitter, lo sappiamo. I due hanno staccato tutti gli altri e sono da tempo in volata (anche perché quasi tutti gli altri… sono morti, informaticamente parlando). Difficile a questo punto pensare di riprenderli. Google Plus sta provando a staccarsi dal gruppo e tirare, raggiungerli nella volata. Ha dietro la forza di Google, un gigante della rete. Anzi, il gigante.
Ma l’impressione inevitabile, è che abbia iniziato a correre troppo tardi.
Intanto che Google si chiedeva cosa fare, provava con l’acquisizione di Jaiku, con Buzz… La condensazione si stava verificando. La direzione delle cose si stava delineando…
Per la televisione, per i giornali, i network sono solo due, solo i due che hanno fatto la volata. La gente in media non ha voglia di lambiccarsi il cervello con altre piattaforme, con altri modi di fare le cose. Soprattutto, non vede la necessità di andare in un posto diverso da dove trova più facilmente i suoi amici. Difficile non essere su Facebook: è possibile, ma è diventato quasi uno snobismo, un po’ come non possedere un telefono cellulare, in qualche modo. Un modo per differenziarsi, insomma.
La persona “normale” (trattasi di persona non fissata sull’analisi di pro e contro delle varie piattaforme sociali in Internet) trova i sui amici su Facebook, poi non è che gli importa troppo sapere, ad esempio, se il meccanismo biunivoco di amicizia di Facebook è meglio o peggio dello schema di Twitter di followers e following. Che ci vado a fare su G+ se i miei amici sono altrove? E’ come andare a prendere un aperitivo in un bar bellissimo ma vuoto mentre i tuoi amici magari stanno al baretto “scarruffato” all’altro angolo della strada. Meglio andare lì, no?
Perché poi abbiano fatto loro due la volata, e non altri, rimane ampiamente materia di dibattito. Un po’ come chiedersi perché a suo tempo il VHS ha vinto sul Betamax (se non capite di cosa parlo tranquilli, vuol solo dire che siete beatamente giovani). Di cose interessanti ne sono fiorite: Identi.ca, Jaiku, Quaiku… e tanti altri che ora nemmeno ricordo. Che come early adopter, ho provato, ho esplorato… e poi li ho visti pian piano deperire, assottigliarsi, annaspare… morire. Il dispiacere più grande sono stati Jaiku e Qaiku. Avevano molte caratteristiche interessanti. Ma è andata così. Penso da un certo punto di vista, abbia vinto la semplicità, perfino la povertà di opzioni, in certi casi.
Doveva succedere. C’è una indubbia convenienza ad essere tutti su un paio di social network. E’ facile trovarsi. Quello che ci siamo persi, è questo: la nozione che c’è più di un modo per farlo, per prendere a prestito il motto assai efficace del linguaggio PERL. Ormai pensiamo “stile Facebook” … le amicizie, i gruppi, i commenti. Pensiamo possa essere soltanto così.
Macché. Piuttosto, la nostra forma mentis si è sagomata sull’architettura di Facebook.
Un poco come quando la gente confondeva computer con Windows, oppure browser con Internet Explorer. Sfuggiva il fatto che ci fossero più modi per interagire con il computer (linux, Unix, Mac OS….) o per navigare in Internet (Firefox, Safari, Opera…). La mente si adeguava allo scenario conosciuto e lo veniva piano piano a considerare come l’unico possibile.
Adesso accade più o meno la stessa cosa, con i social network. La cosa ha appunto molti vantaggi, ma accanto ad essi rimane un cruccio – almeno per chi scrive. Che la varietà che era esplosa qualche anno fa, si sia contratta, si sia ripiegata e annullata. Ovviamente è una generalizzazione, suscettibile di eccezioni e approfondimenti: vediamo bene che sono sorti in tempi recenti altre realtà interessanti, come Instagram, Tumblr, etc.
Tutto vero. Ma se accendete la televisione su Sky olimpiadi, per dire, per comunicare con la redazione, vi daranno l’hashtag per Twitter. Se tornate dal lavoro e ascoltate RadiTre (per darvi un tono piuttosto culturale, anche se siete in macchina da soli e comunque non se ne accorge nessuno) ogni trasmissione del pomeriggio si aprirà fornendovi il suo riferimento su Facebook.
Sembra ieri che provavo timidamente a cercare di capire cosa ci fosse di tanto interessante nel mandare brevi messaggi di stato. Non ero stato ancora preso dal fenomeno del microblogging, che presto mi sarebbe cresciuto addosso a livelli considerevoli.
Le cose andarono così. Twitter mi attese, quando mi convinsi a migrare su Jaiku, un’avventura tanto promettente quanto ahimé disattesa. Mi attese pazientemente anche durante l’eccitante esperimento di Qaiku.
Lo sapeva, sospetto di sì. Lo sapeva che sarei tornato…
Vi avviso subito. In questo post sto per violare una regola elementare. Quella che viene insegnata appunto in ogni rispettabile scuola primaria di primo grado. La regola riguarda, chissà perché, la frutta. La conoscete, è questa: non si sommano le mele con le pere. Ora, a parte il fatto che non ho mai capito bene perché (se sommo tre pere e quattro mele avrò appunto questo, tre pere e quattro mele. Posso semmai capire che non si moltiplichino le mele con le pere: due pere per tre mele che mi darebbe?)
Per passare dalla frutta all’informatica, vi spiego la mia perplessità. Sto per confrontare Facebook con Twitter. Certo, lo sappiamo bene tutti che sono social network, ma presentano caratteristiche fondamentalmente differenti uno dall’altro. Tali che appunto rendono abbastanza inutile – anzi, mal posta – la domanda su quale dei due sia migliore. Non si confrontano mele con pere, insomma.
Attenzione a non confonderle con mele…
Una cosa in comune ce l’hanno, comunque. Sono le due reti sociali sopravvissute alla grande potatura (per rimanere in ambito agrario…) avvenuta spontaneamente negli ultimi anni: i due esperimenti che hanno ottenuto un successo stabile e (a quanto sembra) duraturo. L’ho detto, ma lo ripeto: sono gli unici due network “incorporati” nei sistemi operativi Apple. Piaccia o non piacciano i prodotti della casa di Cupertino, è un indiscutibile riconoscimento di chi sta dominando la scena.
A parte questo, in ogni altra cosa si differenziano. Twitter è più minimalista, più ferreo nel mettere limiti alla lunghezza dei post. Ha un meccanismo di “commento” che non è un vero commento, ma un link incrociato tra pagine. Questo è interessante e abbastanza peculiare: il commento rimane nella pagina di chi l’ha inviato, dunque, in suo totale ed esclusivo possesso.
Facebook ha una serie considerevole di possibilità; le pagine, i gruppi, gli interessi. Twitter ha le liste, stop.
Negli ultimi anni sono progressivamente ricaduto nell’uso quasi esclusivo di Facebook. Il motivo è essenzialmente legato al fatto che quasi tutte le conoscenze del mondo reale sono lì. Tanto che la mia timeline Twitter per molto tempo è rimasta a languire, con radi aggiornamenti.
Ci voleva una occasione particolare per farmi un po’ cambiare idea. Ci voleva il Meeting di Rimini. Nei miei tre giorni al meeting ho seguito abbastanza assiduamente l’hashtag #meeting13 su Twitter, fino a riprendere quasi senza accorgermene confidenza con il mezzo. A riapprezzarne le caratteristiche. Velocità, semplicità, meccanismo del retweet, la comodità dei “preferiti” per ritrovare una lista di cose importanti anche a distanza di tempo (non c’è in Facebook). Possibilità di usare il client che più mi soddisfa (c’è molta più scelta rispetto a Facebook). Anche, la necessità di cambiare, dopo tanto tempo. Tornare in un certo senso a sperimentare, come si faceva negli anni d’oro dell’avvento del web2.0 e ora non si fa più.
In ogni caso, al di là di tutte le considerazioni, quello che mi continua ad attrarre in Twitter è una cosa semplicissima. Per le caratteristiche intrinseche del mezzo, non è strano postare anche molti interventi brevi in poco tempo. Quello che su Facebook sarebbe considerato eccentrico, o addirittura maniacale, qui è la norma. Su Facebook ogni post è come – in qualche senso – una richiesta di commento, dunque essere oggetto di molte richieste in poco tempo è seccante. Su Twitter non c’è modo di inserire un vero commento, dunque lo senti già diverso. Così se segui un evento, come mi è capitato al Meeting, puoi inviare diversi tweet in stretta sequenza, magari con i passi più significativi di un certo intervento, ed è tutto perfettamente normale. Magari qualcuno “risponde” (alla maniera di Twitter, con un intervento sulla sua timeline, che cita la tua), magari qualcuno mette qualcosa tra i preferiti o retwitta il tuo post. Comunque ti senti più libero di postare ciò che vuoi, ciò che senti in quel momento. E soprattutto, di infilare una serie di post senza seccare nessuno.
Tra il serio e il faceto, mi verrebbe poi da aggiungere che vi sono anche altri motivi
Ho capito. @twitter ti permette di esprimerti più liberamente di @facebook. Sopratutto perché i tuoi familiari, di solito, non ci sono — Marco Castellani (@mcastel) August 25, 2013
Insomma – per una quantità di argomentazioni – starei per dire che ha ragione Don Tommaso (anche se pure lui mischia mele e pere impunemente)
Facebook ha dalla sua molti pregi, d’accordo. I gruppi e le pagine sono strumenti molto efficaci e – devo dire – ben congegnati. Li uso e intendo continuare ad usarli. Ma non è Twitter, e in nessun modo può sostituire Twitter. D’altra parte, una mela non è una pera, né può mai sperare di diventarlo.
E sopratutto certi confronti, me lo dicevano alle elementari, non andrebbero fatti…
Ogni tanto ci penso. E’ che chi non ha vissuto il tempo glorioso della sperimentazione probabilmente non può comprendere appieno. C’è stato un tempo nel quale fiorivano diverse piattaforme, si sperimentavano modelli di social network, per ogni paradigma che sembrava farsi strada, vi era tutto un sottobosco di esperimenti più o meno riusciti che avevano i loro sostenitori, e comunque ti facevano capire che c’era ben più di ‘un modo per farlo’. Di modi ce ne erano a decine, ognuno in sana competizione con gli altri.
Ci penso. Penso che Twitter è nato con una struttura così elementare che nessuno gli avrebbe dato mezzo euro di credito. Brevi post di 140 caratteri appena (fatti apposta da poter essere scritti come SMS dal cellulare), nessuna possibilità di commenti, di citazioni di altri. Poi è venuto – dalla comunità degli utenti – il meccanismo della risposta, ottenuto premettendo la “@“ al nome dell’utente al quale si vuol parlare. Poi è stato integrata una dinamica di citazione, di ‘retweet’. Sono arrivati gli hashtag.
Oggi Twitter è il paradigma assolutamente imperante per questo tipo di social network. E’ uno standard, non più una particolare realizzazione. E’ come la posta elettronica – non è percepito come un servizio commerciale di un dato fornitore. E’ quel servizio. Basti pensare che quando Benedetto XVI ha aperto il suo microblog, logicamente lo ha fatto su Twitter. Logicamente, realisticamente: perché è “lo” standard per il microblogging (tanto che quest’ultimo termine comincia a perdere di significato, visto che dovrebbe indicare una galassia di servizi per la quale la luce di uno solo offusca tutti gli altri). Onestamente: ogni altra scelta sarebbe sembrata “strana”, non trovate?
Ma prima no. Prima c’erano altre strade, altre vie. Altri modi di vedere il mondo. Ecco, prima c’era Jaiku. Ricordiamocelo. Quando Twitter non aveva ancora nulla, Jaiku aveva messo su un vero sistema di commenti, ad esempio. Non solo. Aveva i gruppi: potevi associarti ad un gruppo con cui condividere un dato interesse, ognuno con il suo forum di discussione. Jaiku inoltre aveva un client per Symbian che – per l’epoca – era davvero un gran bel pezzo di software. L’ho usato sul mio Nokia 73 e vi posso garantire che era splendido. La scommessa per il mercato mobile era stata lanciata. L’alleanza con Nokia (dire Nokia qualche anno fa era come dire iPhone oggi) un’arma formidabile.
E’ stato un bell’esperimento…
Poi per qualche motivo la scommessa è stata anche persa. Jaiku è prima stato comprato da Google, poi è defunto. Qaiku – nato sul suo modello – ha subito lo stesso destino. Il mercato è implacabile. E ha leggi a volte imperscrutabili.
Facebook aveva pure i suoi antagonisti. La guerra Facebook – MySpace, chi se la ricorda ora? Chi dice più “cercami su MySpace?”. Senza contare tutti gli altri network che spuntavano come funghi. Bello il periodo che è passato. Ogni giorno c’era una cosa nuova da provare. Fotografie di un passato recente, che sembra già antichissimo.
Ora il mercato ha scelto. Si è ristretto su Facebook e Twitter (Google+ tenta di entrare in partita, ma non mi è chiaro quanto riesca davvero). Prima era divertente (tanti network con cui giocare, sperimentare) e frustrante (per collegarti con Tizio dovevi registrarti da una parte, con Caio dall’altra…). Ora è efficiente, utile (o inutile), rapido (siamo tutti su Facebook), e… noioso.
Sì, dal punto di vista tecnico, noioso. Perché abbiamo perso lo stupore e la varietà. Non abbiamo più che un solo modo di vedere le cose.
“Prego?” chiese Giada alquanto incerta. Forse doveva lasciar cadere. A volte Stefano o qualcun altro furbone amico suo, metteva dei doppi sensi nelle frasi e lei spesso non li capiva. Il che peggiorava la situazione perché loro si divertivano di più ancora. Lei si offendeva e si imbarazzava, loro ridevano.
Forse era una di quelle volte?
“Dicevo, tu cinguetti? Se sì, quante volte, in un giorno?”
Giada lo squadrò con uno sguardo che voleva incenerirlo o congelarlo (a sua scelta).
“Stefano, se è un doppio senso guarda te lo dico subito, lascia perdere” fece lei contrariata. Non capiva ma temeva fosse comunque una domanda sconveniente.
“Nooo Giada, non è un doppio senso, stavolta”, specificò Gabriele con la sua aria cortese. Stefano come previsto se la rideva sotto i baffi.
Gabriele era sempre molto gentile, un po’ timido magari, soprattutto con le ragazze. Se stava con Stefano o con qualche amico era meno controllato, scherzava di più. A Giada piaceva la sua gentilezza. Una volta l’aveva incontrato da solo, davanti all’aula di analisi matematica. Era andata a cercare Stefano per un problema di computer (un altro virus su Windows che le apriva continuamente finestre di siti porno, alquanto imbarazzante per un computer di famiglia), e avendolo riconosciuto, lo aveva fermato per chiedere informazioni. Quella volta, affrontato da solo, le era sembrato straordinariamente timido ed impacciato. Come se non avesse una protezione, colto senza armatura, senza la vicinanza di amici, persone conosciute.
Stefano si alzò a prendere la caraffa di limonata che gli aveva lasciato la mamma, prima di uscire.
“Qualcuno ne vuole ancora?” strillò dalla cucina
“Io sì” risposero insieme Gabriele e Giada. Lei rise per questa improvviso inatteso accordo, lui appena piegò le labbra, ancora un po’ sulla difensiva.
Giada non si rendeva sempre conto del potere che può esercitare una donna, con la sua sola presenza.
“Arrivo con i bicchieri. Ah, solo un attimo, devo chiamare Luisa!”
Giada ne approfittò per portarsi più decisamente in attacco. Stefano l’avrebbe presa troppo in giro, doveva capire questa cosa senza rendersi ancora ridicola ai suoi occhi.
“Sei sicuro che non era una cosa zozza quella che diceva Stefano?” domandò subito a Gabriele.
“Ma no, certo che no!” risposte lui, stavolta in un sorriso pieno, come gratificato nel rassicurarla.
“Insomma ma che voleva dire, allora?”
“Davvero non lo sai?” negli occhi di Gabriele traspariva uno stupore autentico. Proprio adesso si deve mettere a fare il prezioso, pensò Giada. Dài che ho poco tempo prima che torna Stefano. Speriamo che Luisa lo tenga al telefono per un po’. Quella è tanto simpatica ma se inizia a parlare, d’altra parte…
“Allora me lo dici? Vedi che è una cosa a doppio senso e ti vergogni?” Giada tentava di portarlo allo scoperto nel minor tempo possibile.
“Ma dài”, fece Gabriele divertito. Giada quasi si irritò di tutta questa sicurezza che sembrava essergli piombata addosso di colpo. Proprio quando sperava di andar giù come il burro quello si metteva a rilanciare, rispondere con domande alle sue domande. Irritantemente sibillino.
Dalla cucina veniva un parlare sommesso. Si innervosiva un pochino quando Stefano si isolava a parlare con la sua fidanzata. Poi si innervosiva doppiamente perché pensava che non avrebbe dovuto provare niente del genere. Decise che intanto Gabriele si meritava un’occhiataccia.
Un ottimo… social pillow
“Va bene, ti spiego subito” si affrettò Gabriele. Aveva funzionato, almeno questo.
“Avanti”, disse Giada.
“Beh c’è questo sito, vedi, si chiama Twitter….”
“Quello che ne parlavano… ne parlava anche Fiorello nella sua trasmissione, giusto?”
“Ecco, sì. Esatto. Infatti dicono che Fiorello abbia sdoganato Twitter”
“Embé?”
“Embé che?”
“GABRIELE!!” fece Giada esasperata.
“Calma, calma. Ecco, ti spiego. Allora, tu vai alla pagina di Twitter, ti registri, e poi puoi cominciare a inviare messaggi”
“A chi?” chiese Giada, alla quale la cosa non sembrava poi così rivoluzionaria.
“A tutti”
“Come, a tutti?”
“Beh tutti possono leggere, ma non tutti trovano i tuoi messaggi nella loro timeline, solo i tuoi follower”
Giada avrebbe giurato che sulla parola follower Gabriele si fosse fermato apposta, per vedere l’effetto che faceva su di lei.
Questo qui ha preso troppo da Stefano, forse dovrei menarlo. Pensò Giada.
“No Luisa, non è così semplice. Insomma ne avevamo già parlato, no? Perché ci torni ancora sopra?” la voce di Stefano era più acuta, sbucò soltanto questa frase dalla cucina. Ma allora stanno litigando di nuovo, pensò Giada. Le dispiaceva, negli ultimi tempi c’era qualcosa che non andava tra loro. Lei ne stava ai bordi. Da amica di entrambi, ne soffriva.
Per i successivi cinque minuti, Giada riuscì solo a sentire un bisbigliare indistinto. Poi Stefano rientrò con la caraffa in mano. Il sorriso artificiale stampato sulla faccia non avrebbe convinto nemmeno un barbagianni in letargo (sempre che ci vadano, in letargo, i barbagianni).
“Ecco la limonata”, disse asciutto, guardando un punto indistinto del salone.
“Ma che è successo?” fece Giada.
“Eh? No, no. Niente. Le donne, sai” replicò evasivo Stefano.
“Le donne le so, le so più di te” rispose Giada tentando di buttarla sullo scherzo.
Un pochino funzionò perché il viso di Stefano si rilassò in maniera minima ma percepibile, e si riavvicinò al suo umore normale.
“Che stavamo dicendo? Ah sì. Allora tu cinguetti?” disse mentre il suo sorriso sornione rifaceva finalmente capolino. Giada non lo poteva dire – nemmeno a se stessa – ma quando sorrideva così l’avrebbe anche sposato, d’impulso.
“Ma certo!” fece lei spavalda.
“Ah sì? Ma non ti ho mai trovato in rete”, fece lui perplesso. “E da quando, scusa?”
“Da quando, da quando..… ma che domande… saranno sì o no due minuti!” rise Giada, mentre tra lei e Gabriele si scambiavano uno sguardo complice.