Installare linux? Microsoft ti spiega come

Non è notizia recente, d’altra parte qui non rincorro le notizie fresche fresche, ci sono siti ben più agguerriti che lo fanno benissimo. A me piace prendere tempo e riflettere, ruminare su alcune cose che hanno un risvolto tecnologico (mai soltanto tecnologico, beninteso).

E una cosa interessante – per chi ha vissuto il tempo delle lotte furibonde tra sistemi operativi, ovvero (soprattutto) tra fanatici di Linux e seguaci ortodossissimi di Windows – è questa alleanza relativamente nuova tra Microsoft e il mondo Open Source. Da tempo ormai, Windows permette di istallare Linux nativamente, con il Windows Subistem for Linux, in modo da creare un ambiente in cui usare applicazioni Windows (anche grafiche) e Linux al medesimo tempo e anche scambiarsi dati tra i due ambienti, con pochissimi problemi.

Come recita la pagina di spiegazione,

il sottosistema Windows per Linux (WSL) è una funzionalità di Windows che consente di eseguire un ambiente Linux nel computer Windows, senza la necessità di una macchina virtuale separata o di un doppio avvio. WSL è progettato per offrire un’esperienza facile e produttiva per gli sviluppatori che vogliono usare sia Windows che Linux contemporaneamente

Che le cose prima non stessero affatto così, beh è nella memoria di molti di noi. Ma per i più giovani possiamo notare come alcuni segnali rimangano a testimonianza di un’epoca ormai (felicemente) tramontata, quella cioè delle opposte e sfegatate tifoserie. Quelle dove – tanto per cambiare – al posto della coesistenza pacifica c’era l’idea di guerra intrapresa per liberare il mondo da questo o quel sistema operativo. L’altro era il male, in pratica. Vi ricorda qualcosa questo atteggiamento? Purtroppo, temo di sì.

Linux o Window (o altro), il vostro computer sarà ormai inutile senza un collegamento a rete…

Meno male che le cose cambiano. A volte, piano piano, cambiano anche in meglio. Ora c’è addirittura una pagina di Microsoft dove si spiega come istallare Linux. Vero, si sconsiglia di sostituire del tutto Windows con Linux con una bare metal installation, ma questo ci può stare: strumenti come la virtualizzazione o appunto il già citato sottosistema Linux permettono di evitare partizionamenti del disco rigido che possono sempre rivelarsi distruttivi, sopratutto se non si prendono le adeguate misure di precauzione.

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Quindici anni dopo (un rischio da riscoprire)

Come passa il tempo! E non potrebbe iniziare in modo differente questo post. Ora che Gmail ha appena compiuto il suo quindicesimo anno, mi viene da ripensare ai primi momenti di vita, al suo esordio. Che io ho praticamente vissuto, insieme con lei.

Ricordo bene l’entusiasmo dell’inizio, di quando Gmail stava aprendo progressivamente al pubblico, e veniva distribuito ad inviti. Ogni iscritto aveva a disposizione, mi pare, appena una decina di inviti. Mi è stato detto che venivano anche messi in vendita su Ebay. La gente aveva davvero voglia di provare qualcosa di nuovo, per la posta elettronica. Si era nel 2004, ma già quel senso di novità premeva. Il protocollo email del resto è una delle cose più antiche che abbiamo nel campo delle comunicazioni telematiche, che resiste splendidamente anche a coraggiosi (e defunti) tentativi di innovazione

E quella trovata dello spazio disponibile, che aumentava piano piano? Una cosa in completo stile Google, ovvero con quell’idea di divertimento che aleggia anche su progetti su cui si punta molto. Ma era così. C’era un contatore, nella propria area email, che segnava momento per momento l’ammontare di spazio di archiviazione a cui si era arrivati. Tutto cominciò, come sappiamo, da 1 gigabyte, che a suo tempo sembrava uno spazio assolutamente immenso. A quel tempo, gli account gratuiti offrivano ambienti di qualche decina di megabyte, più o meno. Un gigabyte sembrava una cosa del tutto impossibile da riempire, nemmeno in una vita. Sappiamo bene che non è così, soprattutto al giorno d’oggi e con l’aumentare dei contenuti multimediali trasmessi anche via email; a quel tempo, la situazione era davvero diversa. 
E fu il mio inizio. Senza troppo sperarci, chiesi su un forum un invito a chi ne aveva disponibili, e mi arrivò (gratis, grazie al cielo). Così registrai subito il mio account m.castellani e iniziai, iniziai questa avventura. Da allora non sono più sceso da gmail, mi trovo bene e apprezzo molto le sue qualità. E’ il sistema di posta elettronica, per me. 
Tanto più vero, da quando anche il mio istituto si è affidato a Google per la gestione della posta, e dunque anche i mail di lavoro li leggo sempre con la interfaccia Gmail (che uso da anni tramite l’ottimo e robusto MailPlane, che mi libera dal dover usare il browser per leggere i messaggi di posta, regalandomi la flessibilità e l’indipendenza di un programma dedicato).

Così Gmail ha assorbito integralmente le mie modalità di fruizione della posta elettronica; nel tempo, ha lavorato sui fianchi tutte le altre soluzioni e le altre possibilità. E’ rimasta solo lei. Fino a che qualcuno oserà di nuovo, proporrà una visione più ampia, farà il prossimo passo avanti.

Ma ora, accantonata anche la parte più biografica, vorrei concludere con un piccolo pensiero, giusto per provare ad allargare lo sguardo.

Gmail è stato coraggioso fin dal suo sorgere. Innovativo in una grande quantità di modi, ha mostrato nel 2004 che su Internet c’era ancora posto per la creatività e per una sana innovazione. Ha costretto molte persone a ridefinire l’idea della posta elettronica, traghettandola definitivamente nel nuovo millennio.

Adesso il rischio è perdere questa spinta, lasciarla svaporare, acquietarsi su una rete che appare propagazione irriflessiva dello status quo e specchio troppo fedele dell’onnipresenza della pubblicità, unica entità veramente indiscutibile in un modo telematico, un tempo felicemente disordinato ed anarchico, ora troppo dominato da logiche commerciali. Una rete che – di conseguenza – è più che mai, alla ricerca di un senso.

C’è bisogno di rischiare qualcosa di nuovo, sulla rete. Rischiarla in nuova progettualità, delle aziende, delle associazioni, dei singoli. Perché a volte questo (ragionevole) rischio, paga. 

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Una nuova Europa digitale

Sono momenti particolari, quelli in cui viviamo. E’ proprio un’epoca straordinaria, unica. Dove il dato digitale orma interferisce con la vita reale nel senso che influisce – con inedita decisione – su quest’ultima. Il digitale, la grande rete (diciamo, Rete), è un mondo che innerva il nostro mondo, in una rete biunivoca di infinite corrispondenze. 
Avendo vissuto un’epoca in cui praticamente nessuno si occupava della Rete e dei fenomeni ad essa collegati, che pure sono stati vivi fin da subito, trovo significativo che ormai la stessa Rete trovi spazio in ogni serio documento che, dai punti di vista più disparati, si ferma ad analizzare lo stato delle cose e le possibili soluzioni per un cambiamento. 

Non fa eccezione il recentissimo manifesto di Emmanuel Macron intitolato “Per un Rinascimento Europeo” che è stato pubblicato in diverse lingue (tra cui quella italiana) sul sito dell’Eliseo. Non ci interessa in questa sede entrare in una analisi politica del testo, non è assolutamente nostro compito o nostro obiettivo. Stiamo al nostro focus che è di analizzare ciò che accade dal punto di vista specifico di come la tecnologia entra e modifica il quotidiano. 
L’Europa, è anche una serie di connessioni, è una autostrada digitale.
Da tenere pulita, aperta, libera, neutrale. 
In tal senso, il documento ha alcuni passaggi di deciso interesse. Nel paragrafo Difendere la nostra libertà, in esso si può infatti leggere

Il modello europeo si fonda sulla libertà dell’uomo, sulla diversità delle opinioni, della creazione. La nostra prima libertà è la libertà democratica, quella di scegliere i nostri governanti laddove, ad ogni scrutinio, alcune potenze straniere cercano di influenzare i nostri voti.

Ed è chiarissimo il riferimento a come i social media siano stati recentemente usati (e possono esserlo, sempre e di nuovo, in modi più o meno leciti) per influenzare l’opinione pubblica in un ambito così delicato come quello elettorale. Usati da privati e da potenze straniere. Riconoscerlo è un primo modo di difendersi: riconoscere il problema è un primo passo verso la soluzione.

Propongo che venga creata un’Agenzia europea di protezione delle democrazie che fornirà esperti europei ad ogni Stato membro per proteggere il proprio iter elettorale contro i cyberattacchi e le manipolazioni. In questo spirito di indipendenza, dobbiamo anche vietare il finanziamento dei partiti politici europei da parte delle potenze straniere. 

Si delinea infatti una strada possibile. O almeno, si individua un percorso possibile per una soluzione. Soprattutto, si mette in luce correttamente un problema.

Dovremo bandire da Internet, con regole europee, tutti i discorsi di odio e di violenza, in quanto il rispetto dell’individuo è il fondamento della nostra civiltà di dignità.

Questo, infine, potrà sembrare utopistico per taluni. O forse potranno sembrare belle parole. Trovo comunque saggio e interessante che venga scritto nero su bianco, che venga – per così dire – individuato chiaramente questo bisogno.  
Si dice in un altro punto del documento, che 

L’Europa, sono anche quelle migliaia di progetti quotidiani che hanno cambiato il volto dei nostri territori, quel liceo ristrutturato, quella strada costruita, l’accesso rapido a Internet che arriva, finalmente. Questa lotta è un impegno di ogni giorno perché l’Europa come la pace non sono mai acquisite. 

Quel finalmente, mi pare, balza fuori come una concessione quasi al parlato, rispetto alla struttura formale del documento. Ma dice bene come i nostri bisogni di connessione, di comunicazione, passino in maniera sostanziale nella Rete. E che bisogna tutelarne l’ambito, dissodarla e coltivarla come un giardino, perché appunto anche la sua pulizia non è mai acquisita. 
Ma è bello metterlo a tema e lavorarci, è sano.
Verso qualsiasi parte politica si propenda. 

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Verso una rete multicolore?

Se nel post precedente abbiamo parlato della chiusura di Google+, l’unica vera possibilità di sfidare Facebook sul suo stesso terreno, dobbiamo dire però che anche quest’ultimo non se la passa molto molto bene.
Cioè, insomma.
E’ sempre il primo social network al mondo. Il che non è poi male, come risultato. Però ci sono anche dei segnali, delle tendenze, che portano a pensare che, dopotutto, l’era Facebook sia in fin dei conti come le altre, ovvero abbia un inizio ma anche una fine. 

Segnali e tendenze che meritano attenzione.


Piccola parentesi. Così è stato, proprio così è stato, per l’epoca Yahoo! del resto. Il trionfo e la caduta del web uno punto zero è stato segnato dal percorso di questa azienda (i meno giovanotti se lo ricordano senz’altro). Tutto era di Yahoo!, ogni servizio valido era suo, in pratica. O se non era suo poco male: lo compravano, e lo diventava. Insomma, niente sembrava poter scalfire questo dominio. 
E poi… è andata come è andata. Sono arrivati Google, poi Facebook. I servizi Yahoo! sono (più o meno) ancora in giro, come fossili nell’ambra, quasi, come segni di un modo di intendere il web che non è più, che ora semplicemente, non è più.

La rete deve rifrangere ogni colore, in modo limpido, aperto, nuovo. 

Questo forse è il nostro problema, che è un problema percettivo, prima di tutto. Siamo abituati ad un orizzonte piccolo, troppo vicino. Noi siamo come schiacciati in un eterno presente, per quanto riguarda il web, tanto che rischiamo di non farci quasi più caso. Sì, la situazione può cambiare, per Facebook. Le voci critiche sul modo di operare del gigante dei social, sono sempre più numerose, e hanno diversi argomenti, anche piuttosto solidi.

Molti tra i più giovani hanno ormai abbandonato Facebook per Instagram, privilegiando un modo di comunicazione che avviene principalmente per immagini. Intanto, i problemi e le grane di Facebook – e non solo i dividendi – continuano a crescere.

Questo può essere visto anche con ottimismo, nella misura in cui si spera possa aprire l’epoca di una rete più poliedrica, portatrice di colori diversi, di modi e mondi diversi. 

Nel complesso, per quanto Facebook sia grosso modo sempre uguale a sé stesso, sono i tempi con i quali si deve confrontare, che cambiano. Dall’inizio dell’era Facebook, si è molto modificata la nostra coscienza critica sull’uso dei dati personali, per esempio. Siamo sempre più consapevoli che la tutela di questi dati è continuamente a rischio, in un word wide web così pervasivo e tecnologicamente evoluto. E siamo sempre più avvertiti del ruolo decisivo che un’entità come Facebook può giocare in contesti molto variegati e esterni al web, dalla scelta di che prodotti consumare all’esito delle elezioni politiche negli stati sovrani. 
Ci sono insomma segnali sempre più forti che ci dicono che le cose non possono andare avanti in questo modo. Abbiamo bisogno realmente di una rivoluzione nell’uso degli strumenti digitali. Una rivoluzione non violenta, lenta, ma reale. Per tanti versi, si capisce, chi è in posizione di potere cerca di mantenere lo status quo. Eppure è un lavoro difficile, sempre più difficile mano a mano che il contesto cambia, la percezione di rischi e benefici si allarga. La consapevolezza si diffonde. 
La grande rete è totalmente diversa da come era nel 2004, anno di nascita di Facebook. Ed è in continua mutazione, in mutazione accelerata. L’unica per sopravvivere, è reinventarsi continuamente, è essere trasparenti davvero, è essere aperti davvero. Abbandonando pretese monopolistiche perseguite in modi opachi. Sognare una rete varia e multicolore, governata da una vera pluralità di soggetti, deve essere quello che ci spinge, la visione. 

Trasparenza, apertura, disponibilità alla coabitazione con altri soggetti. Piace pensare che chi vince, alla fine, chi rimane, lo possa fare per queste qualità. 

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Una rete di meraviglie?

Questo è il punto. Ormai non ci meravigliamo più. Siamo capaci di trascorrere le giornate, infatti, considerando “normale” quello che solo fino a pochi anni fa avrebbe destato la più grande meraviglia. Come appare normale, ormai, l’idea di essere sempre connessi.
Dovunque andiamo ormai ci aspettiamo di poter avere l’accesso ad Internet. Eh sì, perché ormai l’accesso ad Internet è diventato sempre più portatile, quasi ormai indossabile, e dunque non siamo troppo disposti a farne a meno. Anche perché, sempre più attività si svolgono sul web.

Pare strano, adesso, pensare a quando Internet non c’era. Ma appare ancora più strano pensare all’epoca in cui Internet, pur esistendo, non era diffuso così capillarmente come adesso, non era percolato nelle più varie attività umane. Pare strano, per chi ha vissuto l’epoca di transizione dal non connessi al sempre connessi, con tutte le gradazioni che si sono prodotte, nel tempo. 
Non sempre ce ne rendiamo conto, ma siamo sulla soglia di una rivoluzione epocale. Soprattutto, penso, non se ne rendono conto i nativi digitali, le persone nate e cresciute con Internet, con l’idea di averlo sempre a disposizione, con la sensazione sottopelle che sia una cosa eterna ed immutabile.

A volte penso che questi nativi  si siano persi una cosa formidabile. La sensazione frizzante di una cosa nuova e bella che stava arrivando. Non capita tutti i giorni, una rivoluzione così. Ricordo la meraviglia di caricare una pagina web, anche semplice semplice, solo testo e una figura piccolina. Niente interattività, niente javascript, AJAX, applet, cose che si modificano da sole, niente. Pagina totalmente statica.

Ma già realizzare di poter seguire una serie di collegamenti, che ogni pagina può essere collegata ad una miriade di altre, in un gigantesco e potenzialmente illimitato ipertesto, già il presentimento timido di iniziare dunque un’esplorazione che virtualmente può non avere mai fine. Già questo, già questo rimarrà per sempre una cosa straordinaria. Che solo una piccola parte di umanità potrà mai aver provato (sì, posso dire, per quel che vale, io c’ero).

Ancora di più, la scoperta di poter creare dei contenuti ed esporli in questa rete. Che siano potenzialmente fruibili in Giappone, in Asia, in Antartide. Dovunque. Ma come poterlo pensare, prima di Internet?

A ripensarci, è avvilente che usiamo tutto questo, che sfruttiamo questa rete di meraviglia, a volte, semplice-mente per questionare su Facebook. Ma ci sta, anche questo ci sta. E’ umano, totalmente umano. L’importante è rendersi conto, rendersi conto di che strumento formidabile abbiamo a disposizione. Sottrarlo un momento dal velo opaco dell’abitudine – sotto il quale l’abbiamo sepolto – per meravigliarci, di nuovo.

Dopotutto Internet, senza la meraviglia, è morto, è una cosa morta.
Con la meraviglia e lo stupore, veicolati in rete, possiamo fare grandi cose.

Ora, e sempre. 

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Quando arrivò Mosaic…

Arrivò Mosaic, come uno schianto. Mosaic era una finestra su un mondo incredibile, con delle potenzialità assurde, impreviste, straordinarie. C’era questo pannello che quasi magicamente si riempiva di contenuto – piano piano, si intende – digitando una stringa di un indirizzo Internet. Immagini, figure. Cose elaborate altrove che piovevano dentro il proprio elaboratore. Siamo nell’angolo più remoto degli anni novanta, il loro inizio; secolo scorso, millennio passato.
Era una cosa alla quale non eravamo abituati. C’era già il protocollo FTP, c’era la posta elettronica. Esisteva la possibilità di spostare bit da un computer ad un altro, anche molto lontano. C’erano sistemi come Gopher che iniziavano ad abituarci al concetto di server al quale accedere – perlopiù in modalità testuale – per consumare dei contenuti. Certo c’era la rete Usenet, per i forum. Il BBS associato alla rivista MCmicrocomputer; iniziava insomma già a percolare l’idea di connettersi ad un computer remoto per scaricare software.

All’Osservatorio di Teramo (dove bazzicavo al tempo) c’era la rete, certo. Era la rete DECnet, che collegava i computer VAX del centro calcolo con il mondo esterno. Del sistema VAX ricordo alcune caratteristiche interessanti, come il versioning automatico dei file (ogni nuovo salvataggio di file veniva automaticamente etichettato con un numero progressivo, in pratica non ti potevi perdere nulla), e il fatto che il protocollo di posta fosse diverso da quello al quale siamo abituati.  La rete DECnet aveva delle sue specificità. Tanto per dire, all’atto dell’immissione dell’indirizzo email la rete provvedeva instantaneamente alla verifica dell’esistenza del destinatario; qualora non lo trovasse, era impossibile proseguire oltre.

C’era tutto questo, e ovviamente altro ancora. Mancava però ancora una possibilità di questo tipo. Questo: era una cosa nuova, caricare una pagina web aveva di colpo un sapore tutto diverso… cominciavi a sentire il sapore di una vera rivoluzione. 

E tu, ricercatore, borsista, persona che bazzicava istituti scientifici, eri in prima linea. Avevi l’idea di un mondo nuovo che stava arrivando, di cui la gente là fuori non sapeva ancora nulla.

E poi c’era l’aspetto creativo.

Potevi iniziare a creare dei contenuti che sarebbero stati visibili, potenzialmente, in tutto il mondo…

E’ vero che le pagine web che caricavi non avevano niente a che spartire con i siti attuali, farciti di istruzioni AJAX e interattivi in ogni più piccola parte. La pagina web di allora era veramente un ipertesto, con parole (molte) e immagini (poche e piccole, vista la lentezza del trasferimento dei dati).
Così aprivi il computer dell’Istituto (Internet a casa nemmeno a parlarne, appunto: Internet nessuno sapeva cosa fosse, nessuno sapeva ancora che ci fosse), caricavi Mosaic. Sceglievi una pagina (non erano molte: tanto e vero che esistevano dei veri e propri cataloghi dei siti web, anche in forma cartacea) e aspettavi paziente che si caricasse. Appena i dati erano pronti, il sistema faceva il rendering, e per te era comunque una piccola meraviglia.
Tornavi a casa e forse nemmeno nei pensieri più arditi ipotizzavi che di lì a qualche anno avremmo avuto praticamente tutti l’accesso domestico illimitato e permanente al mondo del web. Era già azzardato pensare di poterlo avere a casa. A casa, come veicolo di intrattenimento domestico, c’era la televisione.

Certo c’era il personal computer, ma il veicolo principale per scambiare software erano i dischetti e poi il compact disk. Ogni computer era perciò come una monade, era un universo a sé stante, con poche via di accesso, molto ben definite. Ora non abbiamo idea della quantità di servizi che utilizzano la rete – o meglio, ne abbiamo idea solo quando per qualche motivo ci si trovi fuori rete.

A volte penso che sono fortunato. I miei figli sono già cresciuti nell’era della rete. La vera discontinuità, il punto di svolta, non l’hanno vissuto, in pratica. Avere ricordi di quando la rete non c’era e nello stesso tempo essere immersi nell’era telematica. Non è da tutti.

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