Mi rendo conto, sempre di più, che quello che per me è scontato, assodato, stabilito una volta per tutte, per altri può essere invece qualcosa di inedito, di non visto, di nuovo. Questo è l’impatto della tecnologia nel mondo di oggi, che quello che è normale (tanto normale che è inutile dirselo) per una generazione, può essere totalmente sconosciuto a quella successiva. 
Credo che sia una caratteristica peculiare di questo cambiamento d’epoca di cui spesso sentiamo parlare (qui ovviamente declinato in riferimento all’ambito tecnologico). Ogni cosa è drammaticamente accelerata, ogni cosa si gioca nello spazio ristretto di pochi anni, ogni cosa viene sostituita presto: non solo da nuovi strumenti, ma da nuove procedure, nuovi approcci, modi diversi di fare le stesse cose. Modi diversi di vederle, anche. 
Mi pare emblematico, in questo, il semplice caso dell’ascolto di musica registrata. 
Quello che facevo io, da (più) giovane, non è quello che si fa adesso. I (più) giovani, adesso, agiscono e pensano la musica, in modo totalmente diverso. 
Ma dobbiamo andare nel dettaglio, per capire. Mettiamoci all’inizio degli anni ’80, facciamo, prima dell’avvento del Compact Disc (che è già modernariato di suo, adesso).  Cosa si faceva per ascoltare musica? Sì ovviamente c’era la radio, ma lì dovevi prendere quel che ti capitava. Ma se volevi proprio ascoltare un po’ di prog rock, ad esempio, facilmente dovevi ricorrere ad altre fonti. 
No, Spotify non c’era. Perché nemmeno Internet, nemmeno quello c’era. 
Dunque nemmeno scaricare musica era un’opzione praticabile. 
Nemmeno pensabile, in realtà. 
La puntina che percorreva i solchi, la musica era questa un tempo… 
Facciamo un bel salto indietro, sprofondiamoci un poco nel secolo scorso, allora. Il tempo di compiere un’azione normale, quotidiana, come ascoltare un disco.
Quel ragazzo degli anni ’80, allora, si avvicina alla sua preziosa collezione di vinili, la percorre con il dito, si ferma su un disco, proprio ciò che in questo momento lo attira di più. Lo estrae dallo scaffale e guarda la copertina. Abbastanza grande, per fortuna (altro che CD o peggio, la visualizzazione dentro Spotify). Abbastanza estesa da poterci entrare, da poter entrare con l’immaginazione dentro il disco, le sue atmosfere, le sensazioni degli ascolti passati, la promessa di un altro passaggio interessante. Ci si perde proprio, nelle copertine dei 33 giri. Sopratutto se sono apribili, così si raddoppia l’area interessata. 
Voglio dire, gli interni di Atom Heart Mother, o di Animals, per dire, sono ben più di qualcosa. 
Chi li ha vissuti, lo sa. 
E’ un pregustare visivamente qualcosa che l’esperienza sonora avrebbe poi integrato, confermandolo.
E’ un matrimonio gioioso tra esperienza visiva ed esperienza uditiva, per un’arte che anela a farsi totale.
Bene, il disco è scelto (lasciamo perdere i discorsi complicati altrimenti non ne usciamo). 
A questo punto quel ragazzo (quello di prima), estrae con cura il vinile, lo esamina in controluce (e pensa, … ammazza quanta polvere…), prende uno straccetto apposito, afferra una bomboletta spray apposita, spruzza lo spray sul panno e così inumidito lo passa amorevolmente sulle facciate del disco. Dall’interno verso l’esterno, a spirale, come insegnano nelle riviste specializzate: con un movimento continuo, in modo da portare la polvere in fuori. 
Esaminato di nuovo il disco, ora gli appare più lucido. si può finalmente procedere.
Accende lo stereo, pone con attenzione il vinile sul piatto (lato A in alto, ovviamente), e con delicatezza appoggia la puntina del giradischi sui primi solchi, quelli più esterni (ad essere pignoli, ha anche spazzolato via la polvere dalla puntina con l’apposita spazzoletta di setole morbide). Alle prime note, consapevole che tutto sta andando bene, chiude lo sportellino di plastica trasparente, per evitare la caduta di altra polvere sulla facciata esposta del disco. Un po’ di fruscio, a motivo degli ascolti ripetuti, ma la musica sta già iniziando. Ottimo. A questo punto ci sono un venti minuti circa (mediamente) in cui si può ascoltare senza dover fare null’altro.
Dopo tale tempo, finito il lato A (si capisce anche dal click che fa il braccetto del giradischi alzandosi e ritornando in posizione di riposo), si alzerà e girerà il disco, verificando che sia pulito, e ripetendo la procedura per l’ascolto. 
Avesse avuto poi voglia di nuova musica, questo stesso ragazzo non è che accendeva il computer e tanto tutta la musica era lì (come avviene oggi avendo una qualsiasi sottoscrizione ad un servizio di streaming). Macché. Doveva andare al negozio, entrare, respirarne l’aria, avvertire quel senso piacevole del pregustare il momento della scelta, il muoversi tra gli scaffali, il chiedere al commesso, lo sperare trepidamente che quel nuovo disco fosse già arrivato…
Anche scegliere al negozio, era una piccola avventura… 
Bene, spero si sia capito: c’era innegabilmente una certa ritualità in tutto il processo. 
Che aveva peraltro le sue leggi, i suoi vincoli. 
Per esempio, le playlist coincidevano con i vinili fisici che si possedevano. Ognuno è una playlist, se volete. E la cosa finisce lì. Non c’è modo facile per ascoltare in sequenza una serie di brani secondo una certa scaletta, modificarle l’ordine, aggiungere e togliere canzoni. Nulla di tutto questo. 
Nessuna playlist facilmente condivisibile su Spotify, insomma. Non parliamo poi di playlist collaborative. L’unica “playlist collaborativa” poteva consistere – volendo – nel mettersi con qualche amico intorno ad un tavolo (carta e penna muniti), decidere un elenco di brani, poi pazientemente riversarli su musicassetta, togliendo e mettendo i dischi e fermando il registratore durante le operazioni manuali necessarie tra un brano e l’altro. Una volta ci ho provato, a farmi una mia playlist. Una fatica improba, oggi peraltro assolutamente incomprensibile.
Ovviamente questa playlist, anche così pazientemente realizzata, non era facilmente modificabile. Al massimo, potevi aggiungere brani in coda alla cassetta, nel nastro rimasto vuoto. Ma cose come alterare l’ordine dei brani, beh era semplicemente fantascienza. 
Ancor più di estrema fantascienza (o anche oltre, io non ci pensavo affatto), l’idea di un sistema che ti suggerisca brani a tua misura, un sistema che impari i tuoi gusti analizzando le tue scelte musicali, e ti fornisca indicazioni sempre più precise. Addirittura, ti compili automaticamente delle scalette pronte per l’ascolto, senza che tu debba fare o decidere alcunché (Spotify lo fa, e immagino anche gli altri maggiori servizi di streaming). 
Tutto questo, certo, nemmeno nell’epoca dei CD, che pure hanno reso molto più veloce e a prova di errore, la procedure di ascolto dei dischi. Anche a prova di deterioramento, in un certo senso. O meglio, ovviato il deterioramento progressivo, analogico (gli scricchiolii che aumentano ad ogni ascolto, tanto più fastidiosi quanto più il passaggio musicale ha una dinamica ampia…), arriva però quello digitale, limpido ed assolutamente implacabile, assai più drastico e manicheo di quello precedente (graffia un po’ un cd appena comprato e vedi se non puoi far altro che buttarlo). 
Per questa nuova gestione della musica,  a cui oggi siamo già praticamente abituati, ci voleva il matrimonio tra musica ed Internet. Ma il matrimonio doveva attendere, prima che uno dei due soggetti nascesse… e poi che diventasse maturo. 
Ora che tutto questo è avvenuto, senz’altro un modo nuovo di ascoltare musica sta diventando il modo normale. Un modo di ascoltare musica sempre più slegato dal supporto fisico, e sempre più smaterializzata, consistente in un flusso di byte che viaggia tra server, computer e telefonini, poi finalmente riconvertito in musica. 
Dove finalmente le cose si fanno interessanti.
Dove la tecnica lascia doverosamente 
il posto, all’arte. 
Come è sempre stato. 

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2 pensieri su “La puntina, che percorreva i solchi…

  1. che poi, non era solo il rituale. Era anche la cura e le attenzioni all'oggetto che racchiudeva fisicamente qualcosa che non si vede, ma che provocava emozioni ogni volta. E come se quelle cure e quelle attenzioni fossero un atto di gratitudine nel rimetterlo a posto, in gratitudine delle emozioni regalate qualche minuto prima, o di quelle che ci si accinge a provare.

  2. E' verissimo! Grazie per averlo fatto notare, è una cosa importante. C'era come la possibilità di esercitare questa cura, questa attenzione, c'era un modo non distratto di fare le cose, come per dire proprio "grazie", oppure dire proprio "io, ci tengo".

    Certo il modo c'è sempre, non dico di no, ma forse è meno facile poterlo esprimere, facendo un semplice "click" sul player di Spotify (o analogo) rispetto a come facevamo un tempo.

    Il digitale del resto è meno sensibile alle cure dell'analogico; lì faceva veramente la differenza, pulire bene un disco o metterlo su con la polvere. C'era il modo di dire "questo è importante, a questo ci tengo".

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