Così Steve ci ha lasciato, dopo aver combattuto per anni la sua battaglia contro il terribile male. In questi momenti in rete si moltiplicano i commenti e le analisi di ogni tipo. Da chi lo delinea come un geniale comunicatore e un efficiente manager di sé stesso e della sua azienda, a chi lo ricorda come un maestro di pensiero, quasi come un guru dei tempi moderni. Chi è Steve Jobs, e cosa ci lascia? Sono d’accordo con Licia Troisi (che tra le opposte tendenze, riesce a mio avviso ad essere felicemente equilibrata) sul fatto che ora, innanzitutto, non pensiamo al venditore, pensiamo all’uomo.
Più esplicito ancora, in questo senso, è il pezzo di Gigio Rancilio su Avvenire. Per quanti i-gadget posso avere in casa, quello che più mi colpisce di quest’uomo è il discorso che tenne a Stanford nel 2005 (visibile anche nel bel post di Antonio Spadaro su cyberteologia.it, che efficacemente mette in evidenza le possibili risonanze tra il discorso di Jobs e l’insegnamento di Ignazio di Loyola).
Sicuramente Jobs è stato un creativo geniale, sicuramente il suo Think Different ci ha aiutati a sentirci “speciali” contornandoci dei suoi prodotti (che comunque funzionano, e spesso anche bene) dimenticandoci forse che sempre di marketing aziendale si tratta, di una azienda con luci ed ombre come molte altre. Coraggiosa e innovativa, sia pure, ma pienamente integrata nel sistema.
Tuttavia, quello che più mi colpisce non è quanto è riuscito a produrre, o cosa è riuscito a venderci, ma cosa ha cercato di trasmettere, soprattutto in quel famoso discorso. Un discorso “scomodo”, perché vero. Perché mette in campo quello che tutti cerchiamo di rimuovere (rovinandoci la vita), ovvero la certezza della morte. Sapere di dover morire (e non voler morire) secondo saggisti come Valerio Albisetti, è esattamente il centro da recuperare per dare senso alla nostra vita. E’ comprensibile: se sai che la vita non dura per sempre, ogni giorno, ogni minuto acquista più valore. Soprattutto, non sovrapponi una menzogna alla realtà, non ti muovi come se vivessi per sempre ma sapendo che la tua vita su questa terra ha un arco finito.
Così, anche su di un sito non certo sospettabile di propensioni macchistiche, come LinuxJournal, appare un interessante articolo che ripercorre il percorso che ha portato Steve Jobs ad intrecciare la sua vita con la tecnologia degli ultimi anni. A Steve viene riconsciuto in apertura di articolo il titolo di “innovatore tecnologico”; probabilmente anche linux (è l’ipotesi con la quale si chiude il pezzo) sarebbe stato in qualche modo diverso, senza di lui.
Di converso, non mi provocano nessun particolare entusiasmo, se devo dirlo, le parole piuttosto dure di Richard Stallman (che probabilmente ha perso una meravigliosa occasione per stare in silenzio). Posso dissentire in qualche misura dalla filosofia Apple, ma di certo mi riconosco sempre meno in talune posizioni estreme che trattengono ancora il gusto troppo forte di qualcosa di (tristemente) ideologico.
Ma ritorniamo ancora al discorso di Stanford.
Così esordisce Jobs “Ricordarsi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita”. L’invito di Jobs a seguire il proprio cuore, la sua esortazione “dovete trovare quel che amate” è l’invito a guardare dentro di sé per scoprire la propria vocazione, quello a cui siamo stati chiamati, quello che ci dà entusiasmo e passione, che dà colore alla vita, ai giorni. Assecondare la propria vocazione, “cedere” ad essa, fidarsi dei propri sogni.
Siate affamati, siate folli per me vuol dire questo, non accontentatevi di niente di meno del cuore.
E’ un lavoro, da riprendere. Adesso più che mai. Grazie, Steve.
Elaborazione di un post originariamente pubblicato su /home/mcastel